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RACCONTI
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ROSE BAZZOLI
Le Poesie
di Rose Bazzoli



La principessa che non sapeva piangere

C’era una volta una principessa che non piangeva mai.
Bene, direte voi, era sempre felice!
No, non è così semplice, perché nella vita bisogna sapere essere felici, ma bisogna anche piangere. E’ una cosa naturale e spesso necessaria.

Quando nacque, per esempio, il medico le diede il solito leggero sculaccione per farla piangere, così che le si aprissero i polmoni.
Lei aprì la boccuccia, cominciò a respirare e poi la richiuse.
E quando aveva fame, non avvertiva la nutrice, piangendo; allo stesso modo, nemmeno si faceva sentire se era necessario cambiarla.

Insomma, se non fosse stata una principessa, con una tata coscienziosa, avrebbe corso il rischio di morire di fame o di sete o di essere dimenticata nella culla per giornate intere. Lei non pianse per mettere i dentini, né il primo giorno di scuola …
Ma rideva, direte voi. Sì, sorrideva quando era il caso, ma non ci mise molto ad accorgersi che la gente piange molto più spesso di quanto non rida e che, soprattutto nel suo ruolo di principessa reale, ci si aspettava che partecipasse alla commozione generale, durante le cerimonie ufficiali.

C’era la festa del milite ignoto. Suo padre il re si commuoveva sempre, pensando a quei poveri giovani caduti per la patria, lei invece se ne stava lì, dritta come un fuso, senza riuscire a fare nemmeno un’espressione contrita.
Quando morì la sua nonna materna, a cui peraltro aveva voluto molto bene, non le venne una lacrima.

Insomma, per farla breve, la principessa si fece la fama di essere una ragazza insensibile e senza cuore. Furono interpellati medici e psicologi. I primi dissero che non c’era nulla che non andava nei suoi occhi e i secondi, che era una ragazza apparentemente normale.

Fatto sta che lei non piangeva. Non aveva mai pianto.
Un film d’amore con una fine tragica non la scuoteva, né la vista di un cucciolo rimasto senza mamma e non servirono le letture di storie ‘strappalacrime’ o l’ascolto di brani di musica struggente. Il re, molto preoccupato, fece ricercare specialisti ed esperti in ogni campo dello scibile umano, perché escogitassero il sistema per far piangere la principessa … niente da fare.

Un giorno, si presentò a palazzo un giovane venditore ambulante con un carro strapieno di oggetti, gingilli e ammennicoli vari. Le donne si affollarono attorno a lui con le più strane richieste e lui le accontentava. Ci fu chi chiese un catino per far bere il suo grillo. Il giovane ci pensò un attimo e poi tolse da una scatola un grazioso ditale d’argento e lo consegnò alla donna. Qualcuno domandò una pozione per la tosse, qualcun altro una pomata callifuga. Il re, che guardava dalla finestra, mandò un valletto a chiedere qualcosa che facesse piangere.

Il venditore ambulante fece un gran sorriso e tirò fuori una … cipolla. Il valletto portò la cipolla al re il quale rimase perplesso per un attimo, poi esclamò: “Ma certo!”  Tagliò la cipolla a fette sottili e mandò a chiamare la figlia, Non appena questa arrivò, le mise sotto il naso il piatto pieno di cipolla ed ecco che, all’improvviso, la fanciulla cominciò a fare delle strane smorfie … spalancò due occhi pieni di paura, ma, così facendo, i fumi della cipolla tagliata di fresco li inondarono maggiormente e grossi lacrimoni cominciarono a scenderle lungo le gote.
La cosa era così nuova per lei, che ci mise qualche secondo a capire cosa le stava succedendo. Nel frattempo, il re le ballava attorno con tutta la corte e tutti ridevano e ridevano, perché la principessa aveva finalmente pianto.






Nonna Pelìn

La chiamavano “nonna Pelìn”, perché era una brava cuoca e, nel descrivere le sue ricette, diceva sempre: “Poi ci metti in pelìn di sale, un pelìn di pepe …” e così via.  Nonna Pelìn viveva all’estremità di un villaggio ed era amata da tutti, perché era buona e saggia.

Le giovani andavano da lei a chiedere consigli sulle questioni di cuore, i bambini sapevano di ricevere sempre una fettina di torta o un biscotto, passando a trovarla. Nonna Pelìn era famosa soprattutto per un dolce, di cui non aveva mai voluto dare la ricetta.

“Eh, questa torta è un segreto – diceva – Gli ingredienti si imparano un po’ alla volta, durante la vita. Non posso rivelarveli io.”
E così la torta era diventata leggendaria e tutte le donne del villaggio e dei paesi vicini cercavano di imitarla e di scoprire di cosa era fatta.

Vennero organizzate delle gare, ma nessun dolce riusciva a raggiungere la perfezione della torta di nonna Pelìn. Lei scuoteva la testa, frastornata da tanta pubblicità, ma restava ferma nella determinazione di non rivelare l’ingrediente misterioso.

La base della torta era scontata e così comune, da spiazzare i più grandi cuochi: farina, zucchero, burro, uova, latte, lievito, un pelìn di sale, ma poi … cos’altro? Cos’era a dare a quel dolce così semplice, quel tocco indescrivibile che lo rendeva unico e speciale?

Nonna Pelìn se la rideva sotto i baffi e continuava la sua vita modesta e tranquilla. A quanti, approfittando  della confidenza, le chiedevano del suo dolce, rispondeva: “Dovete scoprirlo da soli.”

Furono mandate delle spie: ragazze dall’aria innocente che passavano a visitarla, con la scusa di narrarle le loro pene d’amore. Nonna Pelìn era gentile con tutte, ma non rivelava il suo segreto.

Una sera, dal bosco vicino, uscì un vecchio dall’aria miserevole e stanca. Vedendolo cosi male in arnese, nonna Pelìn lo chiamò in casa, lo rifocillò e lo invitò a restare per la notte. Dove avrebbe potuto andare a quell’ora?

Il vecchio si rannicchiò sulla sedia vicino al camino e parve appisolarsi. Nonna Pelìn lo guardava preoccupata: cosa poteva spingere un uomo anziano e malato a mettersi in viaggio da solo? Com’era fortunata lei ad avere la sua casetta e ad essere circondata dall’affetto di tutti!

Decise di cucinare il suo dolce preferito, in modo da offrirlo al mattino al pover’uomo. E così fece. Il giorno dopo, il vecchio fu molto grato a nonna Pelìn e non finiva di ringraziarla per l’ospitalità e la deliziosa colazione. Poi, si avviò verso il villaggio.. Lì giunto, fu avvicinato da un gruppo di persone che lo subissò di domande:

“Ha cucinato per te nonna Pelìn? Ti ha preparato il suo dolce famoso? Cosa ci ha messo dentro?”                                                                                                         
Il vecchio era un po’ stupito da tutta quella curiosità e cercò di rispondere alla bell’e meglio:

“Sì, mi ha preparato un dolce buonissimo. Ci ha messo farina, latte, uova, burro e zucchero.”                                                                                                                
“E cos’altro? cos’altro?” chiedevano tutti in modo concitato.
“Nient’altro, vi assicuro.”

“Eppure deve averci messo qualcosa in più … deve aver fatto qualcosa di speciale …”                                                                                                             
“Di speciale? No, non credo … mentre impastava, ricordo che sorrideva e canticchiava. Sì, ecco, era proprio allegra.”







Vivere con un malato di Alzheimer


Vivere con un malato di Alzheimer non significa solamente frustrazione e sofferenza; per me è stato anche una fonte di tante piccole gioie e di momenti di ilarità che compensavano quelli negativi.In mia madre la malattia si è manifestata con un lento ritirarsi, prima in casa (lei che era così attiva nel “sociale” e conosciuta da tutti in paese) e poi in se stessa. Ricordo le sue prime difficoltà a muoversi, o, come si dice in questi casi, a deambulare. Il percorso dalla poltrona al bagno aveva un punto critico in cui lei si fermava, le gambe un po' divaricate, oscillando leggermente, senza riuscire a proseguire. A volte si metteva a ridere e chiedeva: “Cosa mi succede? Perché non vado avanti?”Sarebbe sembrato buffo, se non fosse stato preoccupante.E così, lungo il percorso, distribuimmo dei sostegni: una sedia alla cui spalliera appoggiarsi a metà strada, una maniglia a cui aggrapparsi per superare il gradino… In effetti, le maniglie si moltiplicarono: in cucina, in bagno, nella doccia.(Quante azioni si prendono per scontate finché non diventa un problema compierle!)Quando i miei genitori acconsentirono a venire ad abitare con me e mio marito, il processo degenerativo dell'Alzheimer divenne sempre più evidente. La mamma non voleva più dormire a letto, né stare in camera sua. Si era scelta una particolare poltrona del salotto e da lì osservava il mondo che la circondava, spesso senza riconoscerlo.“E tu chi sei?” chiese un mattino a mio padre.“Ma Caterina, sono tuo marito”.“Però, sei un bell'uomo!” concluse lei, squadrandolo da capo a piedi.Ma l'Alzheimer porta anche crisi depressive. In quei momenti la mamma piangeva all'improvviso, senza una ragione apparente.Vedere piangere la propria madre nel bel mezzo del pranzo è orribile. Non ci si fa mai l'abitudine, ma, in qualche modo, si impara a reagire, soccorrendola, sdrammatizzando l'accaduto, dicendo qualcosa di spiritoso per riportare il sorriso sul suo volto. Il dottore volle prescriverle una pastiglia “per il buon umore”, come diceva lei al mattino quando gliela davo. Non era una medicina miracolosa, naturalmente. Un giorno, vedendo spuntare le lacrime, dissi:“ Mamma, adesso ti faccio un elenco di tutte le cose per cui essere felice”. L'elenco era lungo e lei ascoltò interessata, ma alla fine concluse:“Se ho tutte queste ragioni per cui essere contenta, perché sono triste lo stesso? Me l'hai data la pastiglia del buon umore?”La notte era ovviamente difficile. Non potevo lasciarla da sola in salotto e così mi sistemavo sul divano. Mio padre non dormiva di suo e vagava per casa col suo bastone. Tonf…tonf… Tra il suono del bastone e la rigidezza del divano, avrei comunque avuto problemi ad addormentarmi, ma, dopo una mezz'oretta, iniziava la litania della mamma:“Mi posso alzare?”Lo scopo ufficiale era andare al bagno; in realtà il problema era una sorta di irrequietezza che di notte non le dava tregua.Una volta, dopo l'ennesimo viaggio al bagno, decisi di non assecondarla oltre.“Mi posso alzare?” ricominciò lei.Non le risposi.“Mi posso alzare?” continuò.Tenni duro. “Mi posso alzare?”La ignorai di nuovo.“Mi posso alzare?”“No!” esclamammo in coro io e mio padre che nel frattempo era sopraggiunto, appoggiandosi al solito bastone.“Beh, almeno mi rivolgono ancora la parola!” concluse la mamma.Il senso dell'umorismo fu un aspetto a mio parere straordinario che la mamma mantenne a lungo, nonostante la malattia.Lei per prima sorrideva della propria incapacità di ricordare i nomi. Ribattezzava mio marito ogni giorno in modo diverso e così Roberto divenne di volta in volta Rodolfo, Adolfo, Carlo. Assumemmo la prima “badante” per la notte, ma non ci volle molto a capire che era inadatta; infatti, quel divano così rigido per me non sembrava ostacolare il suo riposo. Quando decidemmo di cambiare la persona, la mamma disse: “Peccato, dormiva così bene!”Si sente spesso dire quanto sia importante che gli anziani restino a casa propria e conservino le proprie abitudini. Questo è vero per le persone come mio padre, sofferente, ma sempre consapevole di sé e con una forte volontà. Il malato di Alzheimer giunge a non avere più ricordi, né punti di riferimento. Bisogna ricrearglieli; quindi, a mio parere, più che il continuare a vivere a casa propria (il che spesso non è pratico per i parenti che lo dovono assistere), sono importanti il clima di affetto, le cure personali, il tempo che gli si dedica, il salvaguardare la sua dignità, continuando a trattarlo come un essere umano adulto, non come un neonato.La persona o le persone che il malato vede più spesso diventano i suoi nuovi punti di riferimento. Mia madre, infatti, mi considerava la sua mamma.Quando le chiedevo in modo retorico: “Chi è la mamma più bella del mondo?” mi rispondeva: “Tu”.Nel tempo, devo dire che mia madre divenne realmente il figlio che non ho avuto e quando non fu più in grado di camminare, di parlare, di mangiare autonomamente, fra di noi si era ormai stabilito un legame molto stretto, di fiducia, da parte sua e di affetto incondizionato, da parte mia.Sapere di aver fatto tutto il possibile per rendere i suoi ultimi anni sereni, compatibilmente coi problemi e i limiti connessi alla malattia, mi è di conforto nella tristezza dovuta alla sua mancanza.







C’ ERA UNA VOLTA UNA POESIA

C'era una volta una poesia che vagava senza meta, in preda allo sconforto.
Era una piccola poesia, poche righe rapide e leggere come le pennellate di un acquarello. Era nata molto semplicemente un giorno, dalla penna di un modesto artista. Lei stessa non era sicura di essere una poesia e, dopo aver sentito il parere di alcuni, si era convinta di essere una "sotto poesia", una "poesia di serie B", una "non poesia", insomma.
Il fatto è che, da una parte, non poteva associarsi con la prosa, le mancavano infatti la lunghezza, le descrizioni, i dialoghi e la trama, dall'altra, capiva che le poesie classiche, quelle ermetiche e quelle che avevano tanto da dire e per di più con un linguaggio raffinato, la guardavano un po' dall'alto in basso.
Così, la nostra “non poesia” stava vivendo una vera e propria crisi di identità. Un giorno, incontrò una conoscente, una “non poesia” par suo.
“Perché non andiamo nel nuovo club letterario che hanno aperto su Internet?” le disse quest'ultima.
“Figurati, li conosco quei siti! Tutti ti criticano; ti dicono come e dove cambiare. Prima ti tolgono le congiunzioni, poi un po' di verbi … alla fine non ti riconosci più”.
“Ma no! Questo è come il Salon des refusés a Parigi. E' una vetrina alternativa dove espongono le poesie che non sono state accettate nel club ufficiale”.
“Ma sei sicura?”
“Sì, lì c'è spazio per tutte. Pensa che hanno accettato poesie fatte di soli tre versi”.
“Ma io contengo solo una metafora, forse dovrei aggiungere un chiasmo, un'assonanza, un piccolo enjanbement … ”.
“Ma no, su quel sito ci sono molte persone che vogliono leggere poesie senza essere obbligate a sfogliare il vocabolario e senza bisogno di note esplicative. Pensa che l'altro giorno, un lettore diceva che, secondo lui, la poesia dovrebbe essere una forma d'arte che dia corpo ai sentimenti, alle emozioni, ai sogni di tutti”.
“Davvero? Io sono proprio così!”
“E un altro lettore si lamentava delle poesie troppo lunghe e piene di paroloni. Le chiamava … aspetta… ah, sì, “virtuosismi logorroici”.
“Mi hai quasi convinta”.
“Devi venire. Lo scopo di questo nuovo sito è portare la poesia tra le gente, eliminando il pregiudizio che sia barbosa e incomprensibile. Dicono che la poesia deve sapersi adattare, nella forma, alle esigenze del nostro tempo; che il messaggio dev'essere semplice, diretto e coinvolgente. Che i poeti non dovrebbero lasciarsi solleticare dall'idea di far parte di un'elite di intellettuali, ma dovrebbero farsi capire, con espressioni poetiche sì, ma accessibili. Cosa ne pensi?”
“Sembra troppo bello per essere vero. Posso dirlo anche ad un'amica? Lei è scritta ancora in rima . Dice che sul sito ufficiale l'hanno presa in giro”.
“Ma certo che può venire. Lì ci sono addirittura degli estimatori della rima.” “E se veniamo comunque rifiutate?”
“Ah beh! In questo caso, apriamo un sito nostro. Facciamo come gli Impressionisti che furono rifiutati anche dal Salon des refusés e organizzarono una propria mostra”.
“Cara, quelli son morti tutti in povertà!”
“Sì, ma vuoi mettere quello che valgono oggi?”







GRASSO E’ BELLO

“GRASSO E' BELLO un corno”! Pensò Nadia, osservandosi allo specchio. Sapeva di essere una bella ragazza … un po' florida, certo, il tipo che in fondo piace a tutti: ai ragazzi, perché “Almeno c'è qualcosa da abbracciare”, alle mamme, perché “Hai un aspetto così rassicurante e sano” (in compenso le stesse trascorrevano il tempo in palestra a riassodare glutei e qualunque altra cosa stesse perdendo la battaglia contro la legge di gravità). Piaceva anche agli uomini, perché ... ma lasciamo perdere quelli. Nadia avrebbe volentieri fatto a meno delle occhiate di certi uomini. Il suo problema quotidiano, tuttavia, non erano gli uomini. Erano ... i collant!
“Signori - pensava – sapete cosa vuol dire infilarsi i collant, quando si è qualche chilo di troppo? Collant riposanti, 70 den, consigliati dal medico per aiutare la circolazione e dall'estetista, per l'effetto contenitivo. 70 den - rifletteva Nadia – così rigidi e fitti, che si potrebbero brevettare come cinture di castità, una volta indossati. Il problema è indossarli, o meglio, indossare il secondo piede. Il primo è un gioco da ragazzi, ma il secondo ti mette davvero alla prova. Sei lì che già fai fatica a stare piegata; le calze hanno poca elasticità e tu cerchi di infilare il secondo piede, mentre le vene del polpaccio della prima gamba vengono strozzate. Quando finalmente ci sei riuscita, ti alzi senza fiato. Ora devi tirarle su: piano, piano, facendo attenzione a non forzarle al punto di romperle. D'altra parte, un po' le devi forzare e toglierti dall'impasse, perché, sarà anche vero che alla fine favoriscono la circolazione, ma nel frattempo vi assicuro che la stanno impedendo. A metà coscia cominci a chiederti se ti basteranno. Se sei fortunata, arrivi fino in cima, ma poi si pone il grosso problema dei fianchi:hai preso la taglia giusta per le gambe? Allora la vita sarà troppo bassa. Se hai preso una taglia in più, aspettati che i collant siano ascellari. Lasciatemelo dire, sono problemi. Altro che GRASSO E' BELLO!” pensava Nadia, osservando allo specchio il proprio viso, paonazzo dopo la fatica quotidiana.
Quel giorno comunque, era particolarmente eccitata: doveva andare ad un colloquio di lavoro e quindi, curò particolarmente l'abbigliamento e il trucco. Alla fine si affacciò in cucina, dove la madre stava preparando la colazione.

“Sei un fiore, figlia mia. Fatti vedere ... però, cambiati le calze, perché c'è una smagliatura”.





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9 Agosto 2006
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