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RACCONTI
Gli Altri Racconti - 1 - 2

Giuseppe Butera

Le Poesie
di Giuseppe Butera



Lo Stregone

Non sento una particolare nostalgia del passato né mi lascio affascinare troppo dall'indefinita nebulosità del futuro. Il presente mi basta. Sono un po' come quell'enorme gatto descritto da Borges nel racconto El Sur, che si faceva accarezzare “come una divinità sdegnosa” dal protagonista Dahlmann, il quale, nel frattempo, se ne stava a pensare che quel contatto era illusorio e che era come se i due fossero separati da un cristallo, perché l'uomo vive nel tempo, nella successione, e il magico animale nell'attualità, nell'eternità dell'istante.
E il mio presente è questo: una lettera e un pacchetto appena arrivati. Il contenuto è davvero strano: dei cocci di vetro e due righe di mia zia. Sembrano dei versi in rima: Caro Tupã, ti mando la burnia che hai dimenticato a casa mia. Statti bene. Zia Maria.
Mi convinco sempre più che la privatizzazione non è proprio giovata un gran che alla qualità dei servizi postali. Mia zia infatti è morta cinque anni fa e il plico deve averne fatti di giri prima di arrivare a destinazione. Ciò spiega lo stato pietoso in cui si è ridotta la burnia, una di quelle grandi bocce di vetro destinate a contenere caramelle o briosce. D'altra parte, di burnie non ricordo di averne mai avute. Che significa tutto questo?
Ah, dimenticavo di dirvi che il mio nome è Tupã, Tupã Buê Sergipe. Non ne so il come né il perché, ma ne sono sicuro: tutti i miei documenti dicono la stessa cosa. Tupã, lo sapete, é il sole, la divinità principale degli indigeni Tupì e Guaranì, che popolavano il Brasile e il Paraguay ai tempi delle grandi scoperte. Sergipe è il nome di uno stato del nord-est brasiliano. E Buê... boh? Una volta glielo avevo persino chiesto a Soraia, ma neanche lei me lo aveva saputo spiegare.
Non mi resta che buttare il tutto nella pattumiera e dimenticare anche questo.
Ma come per incanto sorge improvvisa un'immagine meravigliosa nella mia mente. È un ricordo, o una visione, non so. Una bolla luminosa, di cristallo, di luce raggiante, come il sole appunto, visto da una considerevole altura, mentre sorge dietro un'immensa montagna, lasciando ancora per qualche minuto la vallata sottostante immersa nel buio. Ecco, proprio così. È un ricordo. Siamo a quattromila metri di altitudine, sul ciglio del grande abisso in fondo al quale si stende La Paz. Le luci della città formano un firmamento all'inverso, che fa il contrappunto alle innumerevoli stelle della notte andina. Davanti a noi il massiccio innevato dell'Illimani lascia sfuggire tra le cime un sole chiaro e rotondo, ma l'immensa gola nera, da El Alto a Calacoto, dorme ancora laggiù, spalancata verso il cielo.
— L'Illimani sembra una persona tranquillamente seduta, con lo sguardo rivolto davanti a sé, non già assorta nei suoi pensieri e quindi isolata da tutti, ma libera e indifferente, come se fosse sola e inosservata; e tuttavia s'avvedesse di essere osservata, ma questo non turbasse minimamente la sua calma; infatti, sarà forse causa o effetto, i nostri sguardi non possono fermarsi e scivolano via —. La voce di Pedro irrompe nel silenzio estatico in cui ci troviamo irretiti. È la nostra guida e caricatore nella spedizione lungo el camino del Inca.
— Pedro sta traducendo Kafka —, spiega Gerhardt, il compagno tedesco che riconosce la descrizione di K. dinnanzi a Das Schloss, il Castello. — Non so come fa a conoscere tanti autori. È completamente analfabeta ma dice che, in sogno, legge un po' di tutto o qualcuno gli recita i testi in una lingua perfettamente comprensibile.
— Kafka era Incaico —, aggiunge con convinzione Pedro. — Non in questa generazione, naturalmente —.
Ancora più incredibile è come riesca a reggere un carico così pesante e voluminoso: una semplice striscia di tessuto di canapa sulla fronte mantiene quasi da sola tutto il peso, in equilibro su quelle spalle esigue e ossute.
— Il Castello è l'immagine dell'Illimani e dello spirito degli Incaici: frei und unbekümmert, libero e indifferente.
Sotto quella speciale illuminazione, il miserabile facchino ne è una prova viva e concreta: le guance rigonfie per via del bolo di foglie di coca perennemente succhiato, vesti a brandelli, sandali fatti con strisce di gomme d'auto, ma postura e incedere da principe.

L'altipiano è davvero sconfinato. Il sentiero tracciato dagli Incas due millenni or sono si conserva ancora in buone condizioni per il nostro trekking, ma ci vuole un giorno intero di marcia per arrivare ai piedi delle montagne.
Il sibilo continuo del vento fa da sfondo sonoro al ritmo del cuore e dei nostri passi che accompagnano cadenzati quelli di Pedro. Quando ci fermiamo, se tace il vento, proviamo cosa sia realmente il silenzio assoluto.
Ma la voce di Pedro attenua l'aria di cristallo gelido, con i toni suadenti del suo linguaggio semplice e erudito insieme:
— Oh, Wilkamayu dai fili sonori, quando rompi i tuoi diritti boati in bianca spuma, come lesa neve, quando il tuo turbine precipitante canta e castiga risvegliando il cielo.
Cita Neruda a braccio e dice che, tempo addietro, aveva condotto anche lui verso il Macchu Picchu appena scoperto e a volte torna ancora a chiacchierare con lui in sogno.
— Vieni, minuscola vita, tra le ali della terra, mentre / cristallo e freddo, aria percossa / distaccando smeraldi combattuti, tu, acqua selvaggia, dalla neve scoli...
Ed ecco che si libera finalmente del peso dei nostri bagagli e allora avviene il prodigio. Accovacciato e compenetrato in profonda meditazione, lentamente si stacca dal suolo e levita a lungo a un palmo da terra. Dopo riprende con naturalezza gli atteggiamenti usuali e la guida della comitiva.
Lo riconosco in questo istante. Pedro è uno dei layqa, quegli stregoni che, due anni prima, guidavano i fedeli durante le feste di Urk'upiña, a Quillacollo. Ciò spiega anche il fatto che la sua lingua sia il quéchua, della regione di Cochabamba, e non l'aymara, proprio degli abitanti di La Paz.
Ci ero andato anch'io. Anch'io avevo dovuto dare dei colpi di piccone su di un grande masso per estrarne delle schegge da portare a casa. Sarebbero state il pegno che la Vergine mi avrebbe propiziato il successo nelle mie iniziative dell'anno successivo. La gente ci crede piamente. Io l'ho fatto più che altro per deferenza verso l'amico Sabino che sarebbe altrimenti rimasto mortificato davanti alla moglie e ai tanti conoscenti. Per me era soltanto una buffonata.
Avevo dovuto lasciare la Landau ai piedi della collina e mi ero inerpicato come tutti sulla scoscesa scarpata alle spalle del santuario, che faceva venire subito il fiatone anche a chi avesse i polmoni ben più allenati dei miei.
Lo stregone accettò la birra e la chicha, ne versò un po' insieme a noi, in libagione alla Pachamama, la madre terra; gettò dei grani di incenso nel braciere deposto al suolo e si mise a recitare, in quéchua, una litania di benedizioni o di formule magiche, chi lo sa?
La moltitudine stipava i sentieri e i terreni delimitati con cura dai vari capifamiglia eletti annualmente per organizzare la festa, con enormi pietre che nessuno si sarebbe arrischiato a smuovere. Il fumo dei vari incensieri formava una nuvola che, frammista al polverone sollevato dal viavai della gente, doveva sembrare, dal basso, una grande fumata vulcanica o lo scorrazzare di una mandria di bisonti o almeno un immenso churrasco.
Non so come sia andata quell'anno a Sabino, lassù in Bolivia. A proposito, dovetti anche dargli una mano a scendere dal colle con in spalla la pietra che aveva ricavato dalla sua picconata e che sarebbe stato un vero sacrilegio rifiutare o frammentare ulteriormente: aveva praticamente spaccato in due il masso indicato dallo stregone. Prese il pezzo meno pesante, pagò l'obolo e andò via barcollando con il gran trofeo, seguito dal corteo della famiglia e da me, tutto arioso invece, con il mio sacchetto floscio di poche pietruzze soltanto.
Le cose, in Brasile, posso dirlo, a me andarono davvero a gonfie vele e già mi preparavo per tornare al santuario della Virgen de Urk'upiña per portarle un ex-voto in segno di gratitudine, quando la bellissima casa che avevo costruito in pochi mesi si incendiò con il cane dentro, persi l'impiego ed alle elezioni a consigliere comunale ottenni soltanto diciannove voti: tutto quello che avevo desiderato e per cui avevo fatto tante promesse alla Virgencita era andato in fumo quello stesso anno.
Mi era rimasta la Landau, per fortuna.

Siamo già acclimatati, ma il fiatone viene lo stesso, mentre seguiamo in fila indiana l'andatura ritmata di Pedro verso il passo di Mururata, a quota 4800 metri. È già notte nella Cordigliera Reale e piantiamo le tende per riposare alcune ore e ripartire all'alba per Los Yungas. Ne approfittiamo per scambiare due chiacchiere davanti al bivacco. Lo prendo in disparte. Il mio innato scetticismo si è rafforzato ulteriormente con l'episodio di Urk'upiña, ma la curiosità per fatti così clamorosi è ancora più forte.
— Vorrei che mi insegnassi il trucco.
— Non c'è nessun trucco. È solo una questione di tecnica, molto facile, oltretutto.
Io scettico, lui cinico? O sarà davvero convinto di quel che dice?
— Basta far vibrare dieci volte il diaframma per scaricare tutti i pesi provenienti dal mondo esteriore e inalare soltanto il vento, aura delle forme naturali.
— È facile a dirsi...
— Ciononostante è possibile impararlo. Ecco, proprio così. Dovrai ripetere dieci volte, ad occhi chiusi: Chaywampis yachakaita atikun, Ciononostante è possibile impararlo.
Lo tento... È vero!... Non capisco perché dieci volte... Ma... Sì... Ci riesco. Guarda... Sto levitando anch'io!...
— Posso insegnarti altre tecniche ancora, riservate però a chi vuol proseguire lungo il vero cammino. Ma sappi che potrai metterti nei guai, se non seguissi le regole a perfezione.
— Insegnamele pure.
Il resto del viaggio servì per imbevermi della sua sapienza millenaria, arricchita dall'espressione raffinata d'una vasta cultura.
— I miracoli e la verità sono necessari, perché bisogna persuadere l'uomo intero, corpo e anima, dice Pascal.... E Quasimodo: Nessuna cosa muore che in me non viva. Tu mi vedi: così lieve son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli... E come il vecchio mendicante di Cumberland, di Wordsworth, spero di poter morire anch'io in the eye of Nature, come davanti agli occhi della Natura sono sempre vissuto…

Ormai sono un levitatore provetto. Mi barcameno con disinvoltura tra attività propedeutiche e meditazioni trascendentali. Sento tuttavia la mancanza della platea. È un po' difficile conciliare le esigenze dell'ascesi con quelle dell'ascendente personale. Ma ci provo. Il momento buono arriva con Mafalda. L'atmosfera magica dell'incontro interpersonale mi esalta e mi libera. Lei mi sta a contemplare con lo sguardo concupiscente del neofita davanti all'apparizione del suo dio. Aspiro l'alito delle forme e levito. Lei si entusiasma e mugola di piacere. Io mi entusiasmo e le volteggio attorno. Poi, d'improvviso, m'impenno e volo.
Lo scontro con la materia inerte del soffitto mi restituisce alla forza bruta della gravità terrestre.
Ancor oggi poche persone si rendono conto dei periodi di amnesia dovuti al trauma cranico, che punteggiano di beata incoscienza il flusso inarrestabile della mia vita, mentre tutti quelli che mi vedono non possono fare a meno di notare l'andatura leggermente claudicante che mi rimane dopo tante operazioni alla gamba destra.
Ma non mi arrendo. Attrezzo la mia Landau con un tettuccio apribile e un meccanismo eiettivo simile a quello dei piloti da caccia, caso mai dovessi essere catapultato da una incontrollabile voglia di strafare. E mi avventuro con Mafalda lungo le allucinanti carreteras delle Ande.
L'ora dell'amore è il tempo privilegiato dell'estasi. Le cinture sono state rinforzate onde minimizzare gli effetti di eventuali collisioni, sia orizzontali, sia verticali.
Ma l'élan vital aumenta sempre più e si trasferisce alla vil forza meccanica della Landau, ormai decappottabile, messa scrupolosamente a punto. Fino a che le potenti cinture che ci trattengono al veicolo finiscono invece per trascinarlo con noi in un fantastico volo lungo rotte tracciate dall'imponderabile leggerezza della memoria.
O del sogno?

Vediamo così i paradisiaci Yungas dall'alto.
Campesinas dagli abiti iridescenti pascolano branchi di llamas su fondali da Rugendas o sono intente a sbrigare le faccende domestiche sull'aia o sui campi, alcune con l'aguayo sul dorso, ricolmo di frutti della terra o con un bimbo addormentato dentro.
Sorvoliamo la miniera Chojlla, che sarebbe stata la meta finale dell'escursione con Pedro. E poi il Titikaka che “giace azzurro terso orizzontale, fra le braccia di colline lunghe calve pigre stanche di essere ancora le stesse”: di chi saranno mai questi bei versi?
Nitido invece rimbomba alle mie orecchie Garcia Lorca, nella voce di Pedro:
— Pietre giovanili consunte di sogno cadono sulle acque dei miei pensieri —, mentre vaghiamo celeri verso la costa atlantica: Piedras juveniles roídas de ensueño caen sobre las aguas de mis pensamientos...
Poi, tutto ad un tratto, cambia il paesaggio. Non sono più Tupã ma Serge, Serge Beautupi.
Dev'essere perché sono a Parigi e vengo dall'Amerindia. Sono più giovane e senza la compagnia di Mafalda. La Senna è sempre là, sempre la stessa: senza preoccupazioni, se la spassa bellamente giorno e notte, come cantarolava Pedro su parole di Prévert: ...La Seine a de la chance. Elle n'a pas de soucis. Elle se la coule douce le jour comme la nuit....
Entro nel piccolo cinema dei Champs-Elysées dove si proietta Emmanuelle da otto anni consecutivi. A mezzanotte si attenua il fulgore dell'Arc de Triomphe, non più illuminato a giorno e vado via.
Vedo una nave che percorre la Manica così lontana da sembrare uno scarafaggio in abito da sposa.
E Londra, che conosco in una serata, Westminster a piedi, una sessione ai Commons, l'underground, Trafalgar Square, mezzanotte e la gente che sbuca dai pubs e prende d'assalto i taxi. Bruxelles, Brema, Colonia.
E sono Egbert, Egbert Eupapius. E a tanta distanza dalle Ande, finalmente gli Appennini. E ancora più a sud, le Madonie, l'Etna e Catania adagiata ai suoi piedi.
Al viale Mario Rapisardi soddisfo il desiderio antico di sfilare con la mia Landau, come anni prima avevo visto fare agli emigrati di ritorno dalla Venezuela che sfoggiavano le loro superbe automobili piene di luci in coda, fantasmagoriche come grandi alberi di Natale, passando con boria davanti alla Villa Bellini, poi lungo il Viale Vittorio Emanuele, giù giù fino a Piazza Europa.
E infine arrivo ad Agrigento, che fu mia, che fu Girgenti a Pirandello, Kerkent ai mansueti Arabi ancestrali, Agrigentum ai Romani campagnoli, Akragas ai romantici Greci.
Chiedo una brioscia di granita al barman del Gambrinus ed il giovane sbadato fa cadere la “burnia” davanti ai miei occhi.
Rido perché è incredibile ritrovarsi nello stesso bar che si è visto inaugurare tanti anni fa e vedere frantumata proprio in questo istante l'unica burnia superstite.
E mi volgo fanciullo.
La boccia di vetro assurge a simbolo. O feticcio? Una bolla di cristallo piena dei miei sogni e dei miei desideri e degli odori e sapori e amori di una vita intera. La scarpetta o il cocchio-zucca di Cenerentola. O la parete di cristallo che Borges pone tra il fluire del tempo e l'immobilità dell'istante.
Cedo la mia Landau in cambio di quel pugno di vetri rotti: la voce e le carezze di mia madre, la gazzarra della classe alle Medie; il volto di ogni donna che ho conosciuto.
Li dimentico però da zia Maria.

Direte che ho raccontato un mucchio di fandonie. Ma come mi spiegate il plico? Sarà anch'esso un'illusione della mia fantasia?
Qualche certezza rimane oltre ogni dubbio: i nomi non sono altro che pseudonimi e il pensiero, contrariando il filosofo, non giustifica l'esistenza, ma è l'esistenza stessa, mentre concordo con il poeta che la vida es sueño.
E allora, che mi resta da fare?
Ho ancora una casetta, una donna che invecchia con me e una prosaica Tempra, ormai vecchia anch'essa.
Butto i cocci di vetro nella pattumiera e continuo a vivere nel presente come il gattone di Dahlmann.









UN TOCCO DI CLASSE

Avevo un disperato bisogno di trovare delle cravatte decenti. Mia moglie si era semplicemente dimenticata di mettere in valigia le mie migliori e, al momento di presentarmi al convegno, mi ero sentito come fossi rimasto tutto ad un tratto nudo. Mi aveva soccorso Mario, factotum e improvvisatore ufficiale del convegno. La cravatta apparteneva al concierge dell'albergo, il quale me la consegnò con l'esitante riservatezza di un dignitario di corte, disposto a fare una eccezionale concessione. Non perché fosse la cravatta di un concierge, ma, francamente, non era proprio un gran che. Volevo una cravatta da vero conferenziere. Il tono adatto, il colore appropriato, il giusto peso del nodo, stretto a regola d'arte. Tutto su una camicia dal bianco immacolato, i polsini d'oro ad occhieggiare da sotto le maniche di un doppio petto d'alta classe, in equilibrato gioco con il fazzoletto del taschino e con il fermaglio d'argento andino che, questo sì, mi ero infallibilmente portato dietro. Così, non appena ne ebbi l'occasione, il primo pensiero che mi spinse a fare un giro delle bancarelle di Piazza della Repubblica fu proprio questo, comperarmi delle cravatte. Ce n'erano di tutti i tipi e colori, sommerse da una miriade di chincaglierie, stendardi, statuette, quadretti, piattini, ciondoli e magliette dei più noti calciatori dell'epoca, soprattutto quella con il nove di Ronaldo in entrambi le versioni, interista e brasiliana. Ma non sarei stato sicuramente proprio io a lasciarmi inforcare da uno di quei luccicanti pendagli di finta seta, offerti a piene mani. Buoni magari per turisti frettolosi disposti a sborsare una manciata di dollari o ien per portarsi a casa una qualsiasi cosa con scritto sopra made in Italy. Decisi allora di cercarne qualcuna nell'immenso androne di Stazione Termini, dove sicuramente avrei potuto sodisfare le mie ricercate esigenze, pur sapendo che le tasche avrebbero sofferto un considerevole salasso. E andavo dritto e deciso, senza neanche aver notato il gruppetto di giovani giapponesi, ognuno con l'emblematica Yashica al collo, piazzati a sfoderare un unico abbacinante sorriso davanti a una di loro, che li fotografava con alle spalle la facciata della stazione. Quando però, intento com'ero a badare a dove mettevo i piedi in quel saliscendi di marciapiedi e isole pedonali che seguono il serpeggio delle innumerevoli strettoie riservate alle manovre dei bus, avvenne l'irreparabile. La fotografa d'occasione fece un passo indietro per ampliare l'inquadratura, proprio nel momento in cui, con la testa in aria, scendevo un gradino nella stessa direzione e la mia mano penzoloni venne giù a sfiorare, come una delicata ghigliottina, il suo, chiamiamolo tergo. Non l'avessi mai fatto. — Mi deve scusare — furono le poche parole che mi venne di sussurrare lì per lì e forse erano le uniche che avrei potuto dire in tali frangenti. Ma gli occhi a mandorla che mi vedevo per la prima volta davanti mi convinsero che forse forse avrei fatto meglio a starmene zitto. Fluttuavano alla deriva su quel fiato mozzato che interdiceva qualsiasi presa di posizione, mentre le dentature del gruppo orientale continuavano ad abbarbagliare la scena come un flash all'inverso, ignare del senso e dei motivi dell'imprevista dilazione. — Ma cosa pensi che stai facendo? — Mi tradussero in buon e educato italiano le ciglia aggrottate, che trasformavano a un tratto quel visino di bambola di cera in una truce maschera del teatro di Muromasci. — Vaglielo a toccare a tua mamma! — mi scaraventarono però in faccia subito dopo, da quel che capii, cancellando definitivamente da quell'espressione di perplessità qualsiasi traccia di buonismo. In compenso, quando l'occhiataccia cominciò a dispiegarsi in un irrefrenabile sproloquio in stretto giapponese, il mio senso di colpa si dileguò all'istante, come se quel torrente verbale, invece di travolgermi verso l'abisso del rimorso, fosse servito appena a sciacquarmi l'anima. Ripresi così rinfrancato il mio cammino verso le cravatte, consapevole dell'innocenza che l'esagerata reazione al mio atto inconsulto, intesa a gravarla dello stigma del boia, la confermava invece ineccepibile, come si conviene a quella di un'autentica vittima. Ne trovai due, di cravatte, di fina fattura, che mi impressionarono per la compostezza. Ne ponderai il taglio, la caduta, la tessitura, i riflessi dei tubi fluorescenti sui trini di piccoli losanghi di filo dorato a sfilettare i toni cangianti del blu scuro dello sfondo. La prima. La seconda, sul bordò, era abbastanza più allegra, con i suoi ovoidi argentati che sfumavano in un degradé di toni sempre più spenti, fino a perdersi nella pur dignitosa indefinizione del colore predominante. Le comprai, senza tuttavia essere riuscito deviare un solo istante il pensiero dal recente incontro/scontro con la giapponese. Il fiotto adrenalinico infatti faceva roteare ancora, in un vortice incontenibile, la linea dei miei pensieri, quando, allo spingere la gran porta di vetro, mi vidi all'improvviso davanti ad un'immensa macchia blu. Pensai subito che si trattasse di un plotone, ma era invece un unico poliziotto. Piazzato sulla banchina con le mani sui fianchi a sbarrarmi il passaggio, quasi occultava per intero il gruppo degli ossuti giapponesini di poco prima, asserragliati dietro la sua straordinaria mole. In prima fila intravedevo, alla sua destra, la fotografa con ancora quell'insofismabile maschera, tenera e truce insieme. Alla sua sinistra, una sconosciuta che si era aggiunta al gruppo. Non è vero infatti che i giapponesi abbiano tutti la stessa faccia. Lo sapevo da tempo. Abito in una città piena di nissei, e molti sono cari amici miei. Questa rimaneva in punta di piedi, quasi appiccicata al grande orecchio dell'ufficiale, che non era poi tanto alto, a biascicare chissà che cosa di così importante e interminabile, con fare di chi sapeva il fatto suo. — È vero quel che mi sta raccontando questa signora? — Quella signora tacque un istante. Si interrompeva soltanto per ascoltare il poliziotto o la connazionale a destra, che a sua volta sparava sottovoce qualche parola in giapponese di tanto in tanto. Mi veniva da ridere, ma mi contenni. La pappagorgia del poliziotto ondulava sul nodo della cravatta di ordinanza con la prevedibile fedeltà di note musicali su di un pentagramma. — Mi scusi, ma che le sta raccontando? Non riesco a sentirla — mi azzardai a dire. La ciarliera alzò appena un po' la voce, quel tanto che fosse sufficiente per farsi sentire da me. Parlava un italiano quasi monosillabico, ma si faceva capire, e sembrava anzi specializzata nel ricucire belle frasi fatte. Doveva essere l'interprete della comitiva, convocata d'urgenza a seguito di quel grave incidente internazionale. — Lei ha toccato con mano lá dove non batte il sole a una figlia del sol levante — disse in tono monocorde. Mi sbudellavo dentro dalle risa, ma rimasi impassibile fuori. — La signora dice che lei si è permesso di invadere la sua privacy, palpeggiandole il mappamondo —. Accidenti, è decisamente tramontato il tempo in cui sorgevano come i funghi le barzellette sulla formazione letteraria di carabinieri e poliziotti. Dicono che adesso, per passare nei concorsi, ci vogliono almeno due lauree. — L'ho capito, signor maresciallo — risposi con l'unica faccia tosta che mi ritrovavo —. Ma non lo sapevo che le figlie del sol levante avessero cul... — A professò, e che dice pure le parolacci? — Dicevo della cul...tura delle forme corporee — deviai la rotta del ragionamento sulla scorta della linea erudita nel primo momento intrapresa da quel sosia di un Aldo Fabrizi trentenne —.Veda, maresciallo Fabrizio... — Sono solo appuntato. Appuntato Aldi — (appunto, pensai, appuntato Aldi Fabrizio. Non avrei certo potuto esigere che il nome fosse esattamente uguale). — Appunto, signor appuntato, non avrei mai supposto che sugli antipodi dell'orbe terraqueo si attribuisse la stessa importanza nostra alle protuberanze dei bassifondi. Il titolo di sosia di Aldo Fabrizi, alias sergente Bottoni di Guardie e ladri, più che al fatto di essere grasso, credo che fosse da ascriverglielo per merito di quella serietà distaccata, quella bonarietà compassata, quel tono comprensivo e paterno che contornava la difesa incondizionata delle regole con un'enorme passione per le immancabili eccezioni. — La natura umana, a dispetto dei meridiani e dei paralleli, è sempre la stessa — filosofò, passando di seguito a considerazioni altrettanto sensate, anche se molto meno idealistiche. — E poi, dobbiamo tenerceli cari questi rampolli delle tigri asiatiche. Che senza i loro ien, fra qualche anno si rimane a bocca asciutta. — Lei dice che non si sarebbe mai aspettata di sentirsi toccare il gluteo massimo proprio nella città eterna, detentrice del Circo Massimo — intervenne a sproposito la interprete. Si vedeva che era proprio una guida turistica. Così, di eufemismo in eufemismo, la diatriba si dipanava su una rete di vincoli logici che avrebbe fatto impallidire qualsiasi gioco di linguaggio del secondo Wittgenstein. — Ma è proprio questo il clou della questione... — Badi a quel che dice — si intromise ancora, ma senza troppa convinzione ormai, l'appuntatone. — Ho detto clou, clou... Non è un anagramma. E quanti ghirigori poi: il sedere, il fondoschiena, il di dietro, le natiche, il paniere, i fondelli, tutto per non dover dire quella che è l'unica parola giusta: culo. Ed è proprio questo che è mancato per configurare il reato. Anche se avessi avuto l'intenzione di ledere la turista, che danno le potevo arrecare infatti? Ma se neanche ce l'ha il deretano! Che errore ho fatto? Di cosa dovrei sentirmi colpevole, se non ne ho ricavato nessun vantaggio? Perché dovrei soffrire le conseguenze di un male che non ho fatto? Semplicemente perché non è successo proprio niente. “Sine cul...” — l'ulteriore inarcamento di ciglia del superpoliziotto non fu sufficiente a interrompere la mia travolgente arringa. — “Sine culpa, nulla pœna”, come scrissero gli antichi legislatori romani sulle tavole di bronzo: “Sine damno, nullus error; sine errore, nulla culpa; sine culpa, nulla pœna” — scaraventai lì per lì. E ancor oggi sono rimasto convinto di averla inventata io quella frase. Fu la stoccata finale che riuscì a sciogliere quell'apparentemente indissolubile nodo gordiano. L'orgoglio patriottico del genuino romano de Roma, a dispetto dello scarso latino imparato alle medie, prevalse su tutti gli innumerevoli altri interessi della grande anima di quel grandioso corpo che, in un agilissimo quanto insospettabile dietro front, emanò il suo inappellabile verdetto, rivolto al piccolo, ma rispettabilissimo pubblico. — A regà, avete sentito? Senza chiappe, niente da fare. Tutti a casa. Sgomberare.






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9 Agosto 2006
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