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RACCONTI

Rocco Chimera




Ode al vino

Io e mio compare Ginuzzo siamo seguaci di Rosseaux. Non tanto perché amanti della letteratura, né tantomeno per la vocazione di sporcare quel foglio totalmente bianco che ci mettevamo davanti, tra un sirbizzo e l'altro, ma perché pensiamo che il vino apra le menti. Il vino aspro e fino che se lo beve lo zio Giovannino è una bevanda molto vicina al cuore della gente, di qualsiasi ceto o parte sociale appartenga.
“ Non fare mai di un uomo tristo un caro amico, fuggilo sempre come un porto disgraziato. Avvicina i compagni di bevute e di ribotte, con i più scarsi al bere facci le cose serie”. Non so perché ma ho sempre pensato che Rosseaux ci avesse indovinato vero nelle massime riprese dagli antichi greci.
Il cappellano militare della Caserma Nacci di Lecce ammoniva i militari a non andare a prostitute, dicendo: “ Capisco che alla vostra età, tutto l'essere si traduce nel detto cartesiano: “Coito ergo sum , ma state attenti meglio una pippa oggi che lo scolo domani; poi è sempre come fare sesso con qualcuno che si conosce”, oltre Cartesio c'era anche Wood Allen col cappellano.
Ecco, io penso che le massime e gli aforismi servano a non complicarsi la vita. A proposito fuggite da coloro che tendono a complicarsi la vita ( le mogli ad esempio), vi renderanno infelici. Per questo, io e mio compare Ginuzzo, avevamo sintetizzato la nostra filosofia in questa massima: “ Alla buona tavola, il merito del nostro non essere altri”, ancora oltre Cartesio, Wood Allen, Rosseaux e perfino il cappellano. Due grandi artisti, non della poesia, né della scrittura, ma della terra. La terra da solo buoni frutti recitano in tv; e recitano recitano.
Per la festa dell'otto marzo fummo invitati a mangiare a casa dei miei, perché le nostre metà dovevano festeggiare in pizzeria la ritrovata condizione femminile. Mia madre, invece no, era rimasta a casa a preparare per l'invito. Mamma! Di mamma una sola ne esiste e semper certa est. Ricordatevi, o donne che rubate i pargoli alle mamme, la lotta impari sarà tra il sugo apprezzato della suocera e quello vostro, tutto da scoprire. Questo se cucinate giacché le mamme cucinano sempre. Il fatto era che, l'anno prima, l'avevano convinta a festeggiare l'otto Marzo. Si arricampò a casa tutta incazzata per via che dopo due ore di fila alla pizzeria, strapiena di donne, gli avevano servito una pizza che era cruda nella pasta non lievitata bene, con mozzarella che era preparato alimentare, funghi sott'acqua e prosciutto che veniva lo schifo solo a guardarlo.
Così pensò bene di non andarci più ed essendo a conoscenza del mio compare Ginuzzo come vero cultore del gusto e del retrogusto, invitò anche lui alla mangiata.
Ginuzzo era uno che quando veniva invitato la soddisfazione la dava vero e non solo, era come il sale, si mischiava da qualsiasi parte e aiutava a preparare. Dava il meglio proprio in queste circostanze con il suo indelebile motto: “Io cucino il divino, però i piatti non me li dovete fare lavare” . A dire il vero, tra amici, anche la più esperta padrona di casa, la cuoca per eccellenza, vi si affidava riconoscendone le capacità sublimi, la padronanza del mezzo e subito gli si mettevano a disposizione. Lui comandava in cucina, come un leader democratico che sembra chiedere tutto per favore. Il punto più alto nella sua vita di degustatore lo toccò in Piemonte, in un viaggio di rilassamento, era andato a trovare l'amico suo Tatano. Lì comprò, da un nobile decaduto con cantina ancora zeppa di galeoni d'oro e bottiglie doc e d'oil, una decina di pezzi pregiatissimi di Barolo a prezzo stracciato.
Avendo, di comune accordo con l'amico, deciso di consumare quel nettare nel breve periodo della permanenza: “… e s'infervora come i preti se nominano i santi, o gli ubriaconi il vino: “bianco carta, nero corvo, rosso tramonto. Le mammelle delle donne diventano cuscini di seta, sacchi di farina bianchi, le cosce delfini appaiati nel mare; io li vedevo saltare!” (Ignazio Buttita), le papille gustative iniziavano a secernere liquido di piacere a quell'orgasmo, pensando al bicchiere ed agli odori della cucina. Così toccò il cielo quando, con l'uovo fritto, una sera assaporò il barolo del 75. Inaudito! Con l'uovo fritto? Ahi, lasso stagion de dolor tanto. Una cosa che avrebbe fatto accapponare la pelle a qualsiasi dama di corte, a qualsiasi cortese cavaliere e re, a qualsiasi sommelier. Ma quanti, però, si sono permessi cotanto ardore? Solo un eroe poteva fare questo. Un eroe della mangiata, e con Ginuzzo, quando si mangiava si mangiava per davvero.
Il primo piatto servito da mia madre furono degli spaghetti coi sanacciuli e le fave fresche. Lo spaghetto si presta ad essere spezzato in più parti. In commercio si trovano diversi tipi di pasta dura che, a dire, si sposano con i brodi e con certi tipi di preparato. Mai però come lo spaghetto spezzato: pasta con fagioli, spaghetto spezzato; pasta e ceci, spaghetto spezzato; pasta e fasulino, pasta e cucuzzedda di rascari, spaghetto spezzato, spaghetto spezzato. Ora et sempre, spaghetto spezzato. I sanacciuli e le fave fresche venivano preparati prima. All'acqua cedono tutto l'amarume, si filtra il brodo e con lo stesso si cucina la pasta che si condisce con parte del preparato e con olio d'oliva (giarraffa, marsalise, biancuzza e nocellara del belice) al crudo. Il trattato sul sublime è poca cosa. Il sapore forte di questo primo piatto porta l'anima ad un vino di larga beva, non in bottiglia, ma pigliato nella botte che sta in cantina: “ Ma io sono invaghito o Milone! Sono undici giorni che non bevo da una coppa. (Dice tal Batto), Si vede, tu trinchi vin da botte. (Risponde Milone)
E così iniziammo la delizia.
La pasta fu portata fumante, in unico taiano e l'olio lo versammo crudo come si è detto. Ognuno si prese la sua razione e ne restava per chi ancora voleva allungare la mano. Le fave fresche erano di quelle prime, piccole e si scioglievano in bocca per il piacere del palato. Il primo a nzaccarsi un bel bicchiere di nero d'avola (per amore di precisazione, ch'io sono un tipo preciso, c'era mescolato qualche grappolo di nero capuccio alla torchiatura, e scusate se è poco) fu mio padre: “Prese la coppa giusta – era una ciotola immensa (nove litri circa). La sollevò, la trangugiò: dolce miscela offerta da Folo” (Stesicoro)
“A cannarozzo largo!”, disse alzando il calice; noi lo seguimmo.
Era cala, cala. Il segreto del nero d'avola è quello di mescolarlo con qualche vita di nero capuccio, come si è detto, e per l'eccellenza anche un poco di Inzolia non guasterebbe. L'amarume dei sanacciuli, raccolti al campo, si sposava con il vino, ne versammo un altro bicchiere e lo bevemmo con soddisfazione: “ Su fai girare i calici! Riempiti di rubino liquido e unisci la bevuta del mattino con quello della sera, perché non si vive davvero, se non che nel beato soggiorno di Sicilia, un principato che si innalza sopra quello dei Cesari.” (Al Butiri ibn Umar)
Ginuzzo sembrò essere soddisfatto solo quando prese il concavo piatto, lo sollevò e ne bevve dallo stesso. Ahi, donne che avete abbandonato i sapori arditi, i mariti adducete ad elemosinanti.
“Sempre l'uomo è stato contro le tasse, sentenziò mio padre e colmò nuovamente i bicchieri dei commensali: “ Giova, fare il giro delle coppe nel convito, starsene a bere, a bere, in dolce conversare.” (Focilide)
“Le tasse sono una piaga”, acconsentì mio compare Ginuzzo.
“Vero!”, continuò il mi babbo, oh che tu fai?, spero di cuore ti diverta ovunque. “Una volta c'era un tizio che per entrare a Modena, quando c'erano i re, appi a pagare cinque soldi”
Lo guardai, pensando cosa si stesse per inventare come suo solito, continuò: “ Vedendo che questo alzava la voce come arrabbiato, la gente si avvicinava. Bedda Firenze diceva, lì per entrare …” si avvicinò a noi parlando sottovoce, per non farsi udire da mia madre. Noi attisimmo le oricchia complici. “... a Firenze per entrare solo la minchia ci vogliono dieci soldi, qui a Modena entro non solo quella, ma anche i coglioni e tutto me stesso per la metà del prezzo. Che Dio salvi questa città e chi la governa”
“Vero, come poteva essere questa cosa, saggezza popolare”, dissi.
“ Ma quale? Questo lo disse Leonardo Da Vinci”
“Vabbè”
Arrivò il secondo. Incredibile secondo piatto: castrato di Agnello e stigliole fatte con lo stesso quaglio e budello riempito ad arte, da Peppe U Negus (era di carnagione scura) u carnizziere, dalle frattaglie dello stesso animale con intrugli di cipolla, spezie ed aromi. Tutto al buon uso del forno e della brace, le uniche cose a dare a ciascuna cosa il proprio grande valore. E Olio, e peperoncino, ed altro vino fu portato al desco: “ Dal tramonto del sole all'aurora, bevemmo vin temperato come il sole. Ella cominciò poi a recare in giro tra noi un vino che era per l'anima più soave dell'anima stessa. E legò quante lingue parlanti, ed altre ne sciolse da mute” (Husayn al Qatta)
“Prosit !” . Sembrai dire e già calatone un altro, Ginuzzo riempiva i calici: “ Dimmi, dimmi o bicchirieddu, quanto vale la tua virtù?”
“ Mi parse che la città di Modena fu trattata come una buttana?”. Porse la domanda, educato il mio compare.
“ Modena città di belle donne, noi siamo le colonne dell'università”. A fare rime ero sempre stato una schiappa.
“Le donne a Modena sono maleducate”, disse il padre.
“ Cosa vuole dire?”, parlò il figlio.
“Nel senso che le nostre sono più pudiche” , rispose mio compare Ginuzzo.
“Questo proprio volevo dire”, ridisse il padre.
“ I tempi si sono evoluti anche qui”, riparlò il figlio.
“ E' stato un male”, ririspose mio compare Ginuzzo, lo spirito santo.
“ Ma quale? Prima la femmina usciva solo per le feste e manco poteva parlare coi picciotti, che subito lo arrivava a sapere la madre, e peggio ancora il padre”
Mi ero riempito il piatto di stigliola, mentre gustavo delle olive nere passalunare tostate al forno, in quell'amplesso di goduria che avvicina le anime agli dei. La prima scivolò gustosa, e la seconda, ed ancora la terza, poi un altro bicchiere di vino ed un pezzo di stigliola in bocca. Il pane per l'occasione lo aveva portato Ginuzzo. Era il pane di casa che faceva, una volta la settimana, la madre del di lui cugino Raimondo, un comune amico che non aveva potuto essere presente all'invito per via che aveva fatto una brutta fine; era stato obbligato dalla moglie, che doveva festeggiare l'otto Marzo con le sorelle, a tenere i bambini in casa con le tapparelle abbassate: “Ma volete, miei nobili, schierare le vostre truppe prima di fuggire come conigli senza avere trattato i termini della vostra resa?” (Mel Gibson cuore impavido, ai nobili che si arrendevano senza combattere)
“Ma questo quando?”, intervenne mia madre come a difesa di qualcosa.
“Parlo del 50,52,57…”
“Ora li giochiamo stì nummera”
Non so perché ma mia madre era sulla difensiva, come se dovesse difendersi dagli sproloqui di mio padre e del vino.
“ Sapete picciotti…”, a voce bassa, “…a quei tempi la femmina non si poteva muovere di casa. Ma siccome sempre calda la carne è stata, se due si volevano contro il volere dei genitori c'era la fuitina”
“ Vabbè anche oggi c'è la fuitina. Di meno, ma c'è”, concluse Ginuzzo.
“Quello che non c'è al giorno d'oggi è invece è la nchiusuta”
“La nchiusuta? Mai sentito dire”, intervenni.
“L'ho sentita dire, ne sentii parlare” Ginuzzo sapeva tutto.
“Era che quando la donna non era d'accordo alla fuitina, anzi, addirittura non lo voleva al cristiano che la nguitava,( Dammelo Rossella, dammìllo! Sono un soldato del Sud che ti ama… - Giuseppe Tornatore, L'uomo delle stelle.), questo, se aveva palle, se la nchiudeva”
Mio padre, sospirò.
“Nzaccammo!” ci disse a Ginuzzo che non se lo fece ripetere due volte: “ Ci sia chi versi il vino, accanto a chi vuol bere. Godremo così tutte le notti.” (Teognide.)
" La cosa era che l'uomo, con l'occhio mirrino, adducchiava la picciuttella, bella e pulita della faccia, al momento buono la nchiudiva. Il momento buono era che si trovava da sola nella camera suso, oppure in casa, ci entravi dentro e chiudevi la porta ncatenazzato. Aveva voglia di urlare la donna, si arricampava la gente e il destino era il matrimonio"
“Che minchiata!”, dissi.
“ Quale minchiata? Chi avrebbe scommettuto sulla verginità della donna che era rimasta a casa sola con un uomo? Anche se non lo voleva, anche se aveva urlato, restava zitella e schetta dura"
“ Allora si doveva sposare un uomo che non amava?”, chiesi serio, il tono di mio padre mi aveva convinto che stavamo parlando di una cosa importante.
“La cosa era che era sdisonorata e se non si prendeva quello che l'aveva chiusa, restava. Poi qualche vedovo, o qualche zoppo si ci poteva pure trovare”
“ Io di questa cosa ho sentito dire, però, di gente che lo ha fatto non ne conosco” Ginuzzo pigliò parola.
“Tuo zio Arbele, il fratello di tuo padre, nchiudìo alla tua ziana Giummella”
“Minchia non lo sapevo!”, cadette dalle nuvole mio compare, gli era sempre parso che la zia Giummella troppo bella e intelligente doveva essere in gioventù, per lo zio Arbele.
“Quella volta ricordo che a tuo zio con la canna lo volevano cacciare le donne del cortiglio, troppo simpatica era la tua ziana per questo cosa inutile (pareva arraggiarisi mio padre). Le voci si sentirono lontane e quando uscirono, Arbeluzzo gridava – La sposo, la sposo! - , così la gente non permettette ai suoi fratelli di avvicinarsi al pretendente per mazzoriarlo. Però come per giustizia, perché il minchione aveva portato l'occhio troppo alto, permisero alla madre della bella di avvicinarsi fino a dargli una pedata nel funnamento”
Ci guardammo un po'.
" Beviemmo!". Parlai come per fare un brindisi: " Sembrava che il bicchiere fosse complice e che il vino fosse il vino dell'amore" (Al Katib)
“Però a pensarci bene questa cosa della nchiuduta servì anche a molte donne per cercare marito. Ricordo di Vanni coriqueto, che era un picciottone che si mangiava il cielo e la terra, lavoratore, bello miso. Il problema era che si scantava delle donne e quindi a cercare moglie. Ci piaceva ai tempi Giovetta, la vittoriese. Facevano una bella coppia e lei aspettava solo che glielo mandasse a dire, per fissare il matrimonio. Ma quale mirra, quello sembrava uno stoccafisso, ogni sera che rientrava dalla campagna la guardava in bocca e non si decideva . Alla fine le donne, che sempre hanno capito le cose prima degli uomini (Quando torni a casa, picchia tua moglie, lei sa il perché - Antico proverbio cinese -) organizzarono tutte cose. La madre di Vanni, che era d'accordo, ci disse di andare a prendere il palo a casa dei vitturise, mentre la ragazza si faceva trovare da sola. Quello neanche entrato, si vide chiudere la porta alle spalle e Giovetta che urlava, di quanto era perso non aveva capito nulla, pensava si sentisse male. La donna gli buttò le braccia al collo e lo iniziò a vasari. Lo baciava passionale e ci diceva – Lasciami… Lasciami… Porco! - Vanni che era vero quieto di cuore, rispondeva: Ma io manco ti sto tenendo”
Fuori le donne aspettavano e tutto fu cunsato per bene, pure il matrimonio che Vanni coriqueto seppe il giorno stesso che doveva sposarsi, dato che gli impedirono di andare a fare la giornata in campagna.
“Ma perché mi devo fermare al paese?”, ci chiese alla madre.
“ Ma come, niente ancora hai capito? Stasera cerca di stare attento alla picciotta, per scancio”, la madre così fece la prima lezione di vita e di sesso al figlio.
“ Sì, però tu ci metti la frinza” , intervenne mia madre.
“ Ma perché non è vero che tante volte, la cosa era al contrario e che erano le donne a cercarsi il marito così?”, punto sull'onore il dolce marito doveva pur difendersi.
“La verità è che tu lo racconti come se ci fossi stato ad ogni nchiuduta”
“Per intanto io c'ero quando a figlia di massaro Alessi nchiudìo a Turiddu Sforza. Titina era brutticedda e aveva pure un poco di mustazzo. A quei tempi non c'erano tutti questi cere per depilarsi le donne. Turiddu acchianò in casa per lasciare il vino al massaro, la picciotta era sola e cominciò a vanniare. Urlava che pareva una gallina” Detto questo guardò a Ginuzzo e con uno sguardo degli occhio ci fece capire che i bicchieri avevano sete.
Veramente taliando a Ginuzzo mi ero accorto che il vino tracannato non era stato poco: “ Pirchì lu vinu dintra la fauci, ni punci e muzzica, tintilla e stuzzica”
Aveva l'occhio lucido per via non tanto della dose eccessiva, ma perché sicuramente stava pensando a qualcosa di tristemente importante. E sì, non era questo il problema, i discorsi infatti gli venivano meglio da avvinazzato più che da sobrio.
“Come andò a finire?”, domandai.
“Andò a finire che Turiddu si diede alla macchia e che fu ricercato dal maresciallo Cammita, compare del padre della picciotta. Sapevano tutto, a certo! Titina era grassa, una quartara come quelle che si vendono ancora alla strata foglia di Caltanissetta, bella alta e forte … Insomma con una mascedatta al marito, chiunque era, ci faceva girare tre volte il tavolino, chi se l'aveva a caricare?”
“Ma che dici?”, mia madre sempre pudica.
“Ma se me lo disse Turiddu stesso in piazza che non la voleva!”
“ Ma allora per forza di matrimonio si doveva parlare, una volta nchiudute, non si ribellavano a sta cosa?” Ginuzzo aveva posto in essere una cosa seria. E bravo Ginuzzo, che cosa nobili Ginuzzo! Ecco a cosa stava pensando in silenzio!
“ Che io mi ricordo solo Elena mienzomarito si ribellò. Era la figlia del vucciere. Mangiava carne e si manteneva bella in forma. Era uno spettacolo a taliarla. C'era Giacumuzzu ciucetto che era un poco strammato e la voleva. Una volta si mbriacò di buono vino e la chiuse. La giovane che era svelta gli diede una cuzzata in testa – Vattine! Vattene! – gli gridava e un'altra cuzzata, lo mandò via senza che fecero niente. Intanto la cosa si seppe e la ragazza stava restando zitella. Fino a quando non venne in paese Leonardo Cummaudo, emigrato a Milano, che appena seppe il fatto manco gli parse vero mandarci la messaggeria d'amore a Elena e ancora stentava a credere , che tanta grazia di Dio, ci disse di sì alla faccia dei compaesani che se la ficero scappare”
Si fermò e bevve il bicchiere di vino. Tutti lo seguimmo.
“Questo è l'ultimo! E' da tre ore che parlasciuniamo”, terminò.
“Già!”, risposi, “ tardi si fece” . Mi alzai dal tavolo e salutai mia madre. Lo stesso fece Ginuzzo, la pranzata era finita. Ci attendeva la morte.

Quando alle olive turgide la pelle
brunita si assomiglia in lievi rughe,
le erbe dagli estremi si insecchiscono
infragilite,
irti di spini rigidi i cespugli,
e le vigne ingiallite si esauriscono
nel maturare grappoli pesanti
all'ultimo tepore dell'autunno,
può darsi che uno stocco, fuori tempo
germogli foglie nuove,
antenne biforcute che si arrampicano
nell'aria , invano cercando sostegno,
e poi – nessuno se ne accorge – muoiono.
Danilo Dolci

Uscimmo dalla casa dei miei che l'aria fresca si mescolò al vino, inebriandone la carne; fu una sensazione immensa. Stavamo camminando per la viuzza, dovendo raggiungere la strata ranni e magari farci una passeggiata e smarinire il vino. Ginuzzo aveva un concetto su questa cosa, ci voleva il mazza vino, ovvero un whisky; perché, sempre secondo lui , i liquori che non erano secchi facevano male. Nel crocicchio c'era una ragazza che sembrava attendesse qualcuno. Stava davanti la porta aperta di una casa, era molto carina e ben messa, niente da dire. Subito vidi l'occhio furtivo di compare Ginuzzo. Ci guardammo e scoppiammo a ridere. Attirammo così la sua attenzione, curiosa: “ Ma che ridono questi due minchioni?” , ebbe a pensare continuando a guardarci, mentre noi ridevamo con il vino e ci allontanavamo, sotto lo sguardo di lei, inconsapevole del pericolo che aveva corso, se solo fossimo stati nel 52.




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9 Agosto 2006
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