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RACCONTI

Rocco Chimera

Gli Altri Racconti 1 - 2



Lo zitaggio.


“ A zà Bettina Torrisi dove sta di casa?”
“ Lì, proprio lì alla quarta porta dove c'è la gradinata. La sta vedendo?”
“Ah, grazie!… Grazie!”
“ Ma voi chi siete? Mi pare che la vostra faccia è di conoscenza”
“ Può essere: sono Calogera Indorato quella che si maritò ad Angelo Campisi ed ora sto in Germania, ad Hagen”
“ Ma cui Liduzza, a figli di quelli che abitavano al quartiere Sfera?”
“ Sì, precisamente, songo io”
“ Fai parte dei Pilurussu, i figli della zà Vastianedda allora?”
“Nonsi quelli erano e sono i miei cugini. Noi altri semmo i Pilubaiu e cioè a dirsi i figli della sorella della zà Vastianedda ovvero la signora Orlandina.”
“ Orlandina e come no! Mi ricordo mi ricordo ma non mi dicesse; sai che noi siamo parenti alla lontana? Il tuo catananno era primo cugino di Ciuzzo Abele il mio nonno materno”
“ Ma cu è Abele, quello che ci dicevano Mpapumba? Mischino si lavancò dalla scecca una volta, dice che non era tanto giudizioso”
“Precisamente!”
“ Allora siamo parenti”
Le due interlocutrici si abbracciano di cuore.
“ Vedo che sta cercando la casa della zà Bettina, che ci avi a dire? Anzi, aspettasse che gliela accompagno io”
“ Ti ringrazio ma non si scomodasse che surbizzo da fare sola è questo”
“ Niente di tinto spero”
“ No, anzi….”
“ E allora ci andasse che è quella porta dove ci sono quelle sedie fuori”
“ La staio vedendo. Mah, che ti devo dire, me ne compiaccio che ti ho vista e arrivederci”
“ Arrivederci e mi salutasse assai la zà Vastianedda”
“ A zà Vastianedda morì che ha un bel pezzo”
“ Me ne dispiace, me ne dispiace non lo sapevo”
“ Che ci possiamo fare la vita è”
“ E sì, arrivederci”
“Arrivederci”
La signora Calogera Indorato in Campisi, dei Pilubaiu detta, arriva e trova la zà Bettina seduta davanti la porta di casa.
“ Buongiorno, Bettì!”
“Buongiorno… Buongiorno!”
Risponde Bettina squadrando curiosa da cima a fondo la persona che gli era apparsa davanti.
“ Sono Calogera Indorato non so se mi ha presente?”
La zà Bettina Torrisi la guarda confusa cercando dio rammentare, poi ha un colpo di fulmine.
“ Aaahh capivi ora. Fatti vedere... Come no!, Lidduzza a Pilurusso a figlia della zà Vastianedda”
“ No, quella era ed è mia cugina Liduzza che si chiama come a me e che però è figlia di Vastianedda, la mia ziana”
“ La tua ziana?, e che fece la zà Vastianedda?”
“ Morse mischina, una trombosi…”
“ Mi dispiace, mi dispiace assai. Ma allora tu sei Liduzza a Pilubaiu, a figlia della zia Orlandina?”
“ Precisamente, sono proprio io.”
“ A certo che mi ricordo, a Sfera ci arrivai a giocare pure con le tue sorelle”
“ Arriere … No!, quella era ed è sempre la mia cugina Liduzza, a figlia della zà Vastianedda, perché deve sapere che io solo fratelli ebbi”
“Ah, ci sono ci sono, quelli che poi partistivo per la Germania. Sì, a certo che ti ho presente”
“ Già, ci ha passati trent'anni che siamo in Germania.”
“ E tua madre Orlandina? Da una vita che non ne sento parlare”
“ Morsi; morì ad Avola, a casa di mio fratello l'appuntato”
“ Ma come me ne dispiace!, e quanti anni aveva?”
“ Novantasei”
“ Bona era d'età , mischina”
“ Sì, la vita è che continua e proprio perché la vita continua sto venendo a trovarti”
La zà Bettina la taliò come se già sospettasse qualcosa.
“ Mi dicesse allora, ma mi dicesse”
“ Niente, a mio figlio Bartolo piace vostra figlia”
La signora Bettina storse il muso.
“ E quale, io tre figlie femmine ho?”
“ La più piccola ci piace. Come si chiama?”
“ Ausilia”
“ Sì, quella alta, una bella picciotta che mio figlio non se la può togliere dalla testa”
“ Però Ausilia è già fidanzata, sono spiacente”
“ No, non è fidanzata che presi informazioni prima di venire; con il picciotto di San Catallo si lasciarono già da un anno”
La zà Bettina fu presa alla sprovvista.
“ Ah si lassarono?, non lo sapevo. Ma fatemi capire, quale dei vostri figli è quello che la pretende dato che mi sembra ne avete due?”
“ Bartolo, il più grande, che Pietro, disgraziato, è imbrogliato con le tedesche ed a 28 anni non ha messo la testa a posto. Non vuole maritarsi”
“ Non ho presente. Però voi, accussì su due piedi, non potete avere risposta”
“ Certo lo capisco ma sempre una cosa sbrigativa dobbiamo fare e gli anellini compriamo prima di partire per la Germania”
“ Aspettasse un momento Lidduzza che salgo suso le camere di sopra che le ragazze stanno facendo pulizie. Così mi chiarisco le idee”
“ E vabbé!, io qua ad aspettare sono; facisse con comodità”
La zia Bettina sale in camera dalle figlie e torna dopo quasi mezz'ora di esauriente discussione: viso sereno e soddisfatto.
“ Allora cosa avete deciso?”, chiede la Pilubaiu.
“ Ma sicuro che è vostro figlio Bartolo a volere mia figlia Ausilia?”
“ Certo!”
“ Ausilia è una bella picciotta, lo dicesti tu manco un momento fa”
“ Ricchezza e bellezza non si possono nascondere”
“Ecco non per disprezzare il picciotto ma capace che Bartolo alla spalla non ci sta con Ausilia”
“ Che significato ha? Anche mio marito è più basso di me, eppure è una vita che siamo insiemola. Sempre felici che i maschi della mia casa sono lavoratori e fedeli”
“Sì, lo so , fatto sta che Ausilia è un fiore”
“ E chi me lo assicura che già non se lo coglierono dato che fu fidanzata? Vedi all'occorrenza ci possiamo dimenticare della statura”
“ Sul fatto del fiore, puoi dormire con il capizzo alto ed essere sicura. Anzi mentre ci siamo chiariamo; si dice che i maschi della famiglia tua siano … Non mi viene la parola … Come a dire: difettosi”
“ In che senso?”
“ Nel senso che difettano nella virtù”
Bettina fece una forma di pistola con le mani.
“ Ah, solo questo, può essere anche che questa cosa ad Ausilia non ci dispiace! E questo se lo permetti io lo posso dire a voce alta”
“ Senti Lidduzza, mia figlia Ausilia a tuo figlio il grande non lo vuole perché preferisce a Pietro, l'altro figlio tuo, che è più bedduzzo”
“ E che facciamo accussì, lasciamo perdere di cacare per andare a pulire il culo alla cane? Che significato ha questo?”
“ Quello che appena ti dissi”
“ E a Bartolo?”
“ Ci puoi dire che la mia figlia grande, Adele, si ci può trovare”
“ Così facciamo che sparo a chi vidi ed acchiappai a chi non vidi?”
“Perché Adele non ti piace?”
“ Non è questo, Adele grannuzza mi pare e tanta fresca non è”
“ Vabbè!, se è per chisto manco a Bartolo lo pescarono stamattina. Anzi, mi fai dire che lo sguardo non ce l'ha scaltro come al fratello”
La signora Calogera Indorato ebbe un sussulto, come presa in contropiede nella contrattazione da una concorrente più scaltra.
“ No, certo che però la situazione è nova ed a casa ne devo parlare. Caso mai ad Ausilia puoi dare il numero del telefonino di Bartolo…”
“ Lidduzza”, la interruppe la zà Bettina, “ non fare come a minchia do surdu! Mi spiego meglio: qui siamo come a Costanza, uno per ogni stanza e se la stanza non c'è…”
“ …mori Sansoni con tutti i re; capivi”
“ Mi fa piacere che capisti!”
Dopo un attimo di silenzio le due donne si diedero uno sguardo d'intesa e si mossero.
“ Me ne compiaccio che ti ho vista” – “Pure a mia”
Le due donne si salutarono con un bacino.
Nel giro di due settimane, prima che la famiglia Campisi, detta Pilubaiu, partisse per la Germania, tutto si bersò.
Adele, la sorella più grande, fu promessa a Bartolo.
Pietro , il fratello più piccolo, che sulla prima naschiava e non voleva sposarsi, appena vide Ausilia la prenotò subito, prima che il sancatallese si rifacesse vivo.
Così si sposarono tutti l'anno dopo a Luglio, ed Ignazio, il padre delle ragazze, capì quello che stava succedendo solo quando lo portarono a provarsi il vestito nuovo in negozio.
“ Ma chi si marita?” , chiedeva.
“ Ausilia, ma perché non te lo avevamo detto?”
“ Mia figlia Ausilia, la più piccola?”
“ Sì, ma anche Adele si marita”
“ Mia figlia Adele, la più grande?”
“Sì, pure lei si marita”
“ E Assunta, la mezzana?”
Assunta, la mezzana, che aveva il meglio delle altre due sorelle, si sposò in dicembre dello stesso anno, tramite una ambasceria della stessa Liduzza, nel periodo di Natale, con Arbele Pilurusso, primo cugino dei Pilubaiu, questo sì nipote originale della zà Vastianedda.







L’esperto della morte

Loco Barone è un quartiere popolare di Cabrò dove tutti sanno tutto di tutti.
Si pensi solo che, quando il medico di turno attraversa i vicoli del posto per recarsi nella casa dove lo hanno chiamato, specialmente in estate, deve barcamenarsi tra decine di sedie e persone che lungo il percorso discutono del più e del meno fino ad ora tarda.
Non importa il sesso o l'età dei conversatori ma le discussioni possono iniziare calme, nella quiete del caldo serale, animandosi improvvisamente per un nonnulla: sciarre, parole grosse, qualcuno sbraita e dopo, come per incanto, una donna decide di tirare fuori una fornacella e pulire un poco di pesce, pescato nel mare a due case più sotto, e si cena fuori anche alle due di notte.
La partita di gente che per prima ha avuto l'idea del fuoco potrebbe essere imitati da altri, quindi, la lunga via di Loco Barone verrà illuminata, nel giro di qualche minuto, da decine di tizzoni ardenti e dall'odore delle sarde fresche che alla brace si mangiano calde, accompagnate dal pane, dal limone, dal vino e dalla cipolla cruda.
Il povero medico di turno così, oltre a scansare uomini e cose, è costretto a riempirsi di fumo durante tutto il tragitto e, come se non bastasse, viene seguito dagli sguardi di decine di curiosi al suo passare. Tutti che lo salutano e commentano l'ire di questo uomo di scienza.
“ Sì, sta andando da Tizio che u picciriddu ha avuto nuovamente la febbre”.
“ No, sta andando da Caio, che il marito è tutto il giorno che vomita” .
“ Silenzio!, sta andando da Sempronio che a ziana Lidda ci piglià l'arteria di nuovo. Ottanta anni ha mischinedda”.
“ Ma chi, la madre di Sempronia? Ma che state dicenno? Manco settantanove ne ha, e poi non è arteriosclerosìa ma morv di Pachinson che me lo disse mio figlio”.
E già c'è sempre qualcuno che, nel proferire verbo, sputa la sentenza finale che viene accettata dagli altri, poiché di solito a questa persona si riconoscono doti di acculturamento al di sopra della media ed anche in questo caso, nonostante il dizionario medico non fosse dei più preciso, tutti riescono ad intendersi.
C'è da dire che non c'è pettegolezzo in ciò ma una solidarietà immensa; tutto il quartiere vive con trepidazione, come fosse una cosa sua, qualsiasi disgrazia o malattia che capita alla singola famiglia.
Tanto è vero che il medico di turno, di sicuro un sciatuzzo forestiero imbranato, cercando il numero di porta di Caio e del marito che vomita, non riesca mai a trovarne la casa, così da esserci la necessità che qualcuno del posto lo accompagni volentieri nel sito.
La cosa non finisce però lì. Questo qualcuno, manco fosse cosa sua, si prodiga ad accendere le luci dell'abitazione, ancora al buio, del degente che diventa così illuminata da sembrare la festa della madonna del Carmine Burana. Addirittura, senza che il medico se n'accorga, due , tre, cinque comari, vedendo le luci accese, entrano in quella casa per tirare su il morale e fare compagnia a Caio, mentre il professionista è intento a visitare il malato.
Solo dopo la diagnosi tutti tirano un sospiro di sollievo, dicendo tra loro che l'avevano capito si trattasse di una cosa da niente e, come in un consulto tra luminari, alcune arrivano addirittura a consigliare al medico di prescrivere le iniezioni o le supposte che hanno utilizzato per i loro cari con successo per la stessa malattia.
A questo punto se costui è un tipo di professionista scaltro, farà finta di fare come dicono le donne; se è meno scaltro, cercherà di convincerle che la sua cura e la migliore, addentrandosi in una sorta di discussione estenuante; se invece è un minchione, dirà che il medico è lui e loro devono stare tutte zitte.
A parte che, poi, il degente non prenderà di sicuro le medicine prescritte da lui ma quelle che già una delle comari ha in tasca con il talloncino da presentare al farmacista; a parte che qualcuno dirà di quanto sia antipatico questo dottore tanto che, facendo la strada del ritorno, nessuno lo saluterà più come quando era arrivato. Non solo, ad alcuni verrà in mente di dire: “ Talé, l'arco di scienza sta passando!”, oppure. “ Chissu ha più fumo di stò braciere e non sa manco dove è miso!”.
Egli farà finta di non sentirle queste cose, inutilmente però. Esse, a poco a poco, entreranno come un trapano alle sue orecchie mentre cammina tra le fornacelle e finalmente capirà qual è la sua considerazione nel quartiere.
Ebbene sì, Loco Barone, è un quartiere di grandissimo cuore, capace solo di sentimenti forti. Un quartiere popolare abitato da grandi lavoratori, da persone di grandi capacità e, nella maggioranza dei casi, di grande onestà.
Non si pensi, comunque, che l'aggettivo popolare debba sminuire l'importanza di questo posto, anzi, è tutto il contrario. Possiamo dire che, mentre scriviamo, l'attuale onorevole presidente del Consorzio sviluppo nel Mezzogiorno, con ufficio dirimpetto alla Camera dei Deputati nazionali, non è di Palermo né di Catania, ma è nato e cresciuto a Cabrò, a Loco Barone precisamente, e quando si vota per le elezioni nazionali, proprio qui il 99% (c'è sempre qualche traditore) dei suffragi è per lui. Non può essere altrimenti, è il figlio della gnà Rocchedda che vende ancora pomodori e piselli con la cascittina fuori dalla sua porta.
Non è l'unico caso di persona importante, anzi. C'è il giovane primario di cardiologia dell'ospedale Cervello di Panormos che è di Cabrò, meglio dire di Loco Barone. Lo stesso che appena laureato ebbe il titolo di migliore studente dell'ateneo palermitano. I suoi coquartierari non conoscono altri ospedali che quello dove lui professa e, quando ritorna dagli stage e dalle conferenze che spesso fa a Sydney o negli States, si sparge la voce subito ed in tanti lo vanno a trovare per i motivi più svariati , tanto che sembra di essere alla Madonna di Lourdes.
“ Santino, non mi fare scantari!”, è la frase più ricorrente.
Egli li rassicura, sa come farlo, anche se si tratta solo di una unghia incarnata. Si comporta con loro come un figlio perché è il figlio di tutti coloro che lo hanno visto crescere nel quartiere, che lo hanno visto giocare alle sette pitrelle e sciarriarsi con gli altri bambini vastasuotti calienti. Da sempre ne hanno capito l'intelligenza e le potenzialità e hanno tutti tifato per lui e perché ce la facesse.
Possiamo dire ancora di più: se i cabresi pensano che tutto il mondo finisca nella loro città, inutile tentare di parlare dell'esistenza di Roma , Milano o di metropoli come Tokio, New York, quelli di Loco Barone sono convinti addirittura che con il loro quartiere finisce Cabrò. Dopo non c'è niente, solo case.
Forse, è proprio per la capacità di questo posto di essere una grande famiglia che i ragazzi qui cresciuti non dimenticano mai. Così fu, anche, per i quattro protagonisti di questa storia, avvenuta tanto tempo fa, quando a Cabrò c'era ancora la mafia.
Erano quattro amici fratelli: Giordano e Aldo Cummo, di padre contadino e madre casalinga, Fabrizio Spena, di padre bidello e madre casalinga, e Rino Tabbìt, di padre giornataro nei campi della piana e madre casalinga.
Crebbero insieme condividendo tutto, compreso le penne e le matite che Fabrizio Spena aveva sempre appresso, dato che il di lui padre bidello tra i banchi della scuola, dimenticati dagli alunni, ne trovava a profusione, e ne forniva tutto il quartiere a gratis.
Erano talmente intimi che, ai giardini di Dezia, quando andavano a masturbarsi ancora adolescenti, non volevano estranei, sempre e solo loro quattro.
Smisero quando Aldo, fratello minore di Giordano, indicandogli il pene di Fabrizio Spena, disse: “ Talé, Giò stò bastardo ce l'ha quanto il papà!”.
Così ai giardinetti non ci andarono più, rendendosi conto che stavano diventando adulti. A proposito di pene, visto il discorso, Rino era quello meno dotato dei quattro, tanto che lo chiamavano affettuosamente cicidda.
Della compagnia era fisicamente il più aggraziato ed anche il più bello, con quei capelli biondo mossi ed il viso gentile. Era il più piccolo ed i suoi amici fratelli su di lui facevano quadrato e lo difendevano, sia nei giochi che nelle guerre bambinesche con le altre bande dei quartieri viciniori.
Cosa era la povertà lo capirono presto ed insieme alle loro famiglie quando a casa si mangiava pasta e fave come primo e fave per secondo, per intere settimane. Poi venne il benessere ed i loro genitori si permisero altro.
Da grande ciascuno di loro intraprese la propria strada ma rimase un cordone indistruttibile che sembrò unirli in un eterno ineluttabile destino dove la colla fu un profondo sentimento di virile amore per la loro amicizia.
Aldo Cummo, tra di loro quello più intellettualmente dotato, divenne odontoiatra ed aprì uno studio in piazza; suo fratello Giordano continuò il mestiere del padre ed anziché dedicarsi alle coltivazioni a pieno campo costruì le serre per le primizie; Fabrizio Spena prese una specializzazione di saldatore argon e divenne un trasfertista, ovvero uno che se l'impresa lo mandava in Bielorussia a saldare ci andava contento poiché al ritorno avrebbe contato tanti bei soldini.
Rino cicidda Tabbìt, invece, dopo vari tentativi di trovare lavoro. Dopo che Fabrizio Spena se lo era portato appresso dal principale suo, col motivo che lo voleva come aiutante e che gli avrebbe insegnato il mestiere e tentò di farlo veramente con scarso risultato, tanto che l'amico si licenziò con la scusa del cannello acceso che gli si mangiava la vista; finì che Rino ancora disoccupato, davanti al bar a passiare, trovò occupazione, giusto giusto, quando in città scoppiò la faida tra i clan della Stidda e di Cosa nostra: divenne killer.
Il reclutamento fu una cosa assai strana. Una mattina era al bar del biliardo che faceva una partita e discuteva con un conoscente, quando due persone chiamarono il suo interlocutore. Rino lo vide parlare con questi sconosciuti notandolo chinare sempre il capo.
Al ritorno, incuriosito dallo strano atteggiamento di questi, chiese se era tutto a posto. Quello lo taliò e rispose: “ C'è di fare un travagliu ma ci vogliono i coglioni!”.
Rino capì che doveva essere pericoloso ed in quel momento decise la sua vita ed il suo mestiere. Si offrì, nonostante il suo conoscente cercasse di dissuaderlo, perché per fare ciò doveva essere fatto ci volevano le palle per davvero.
Però vista l'insistenza di Rino, accettò tipo gli facesse un favore, e lo avrebbe presentato al capo bastone la sera stessa.
L'indomani mattina Rino, sbarbato di fresco per il primo giorno di lavoro, fece il palo ad un gruppo di fuoco che ammazzò un venditore ambulante in via Attadio e, purtroppo, anche un giovane studente, tale Alfredo Innerva, che si trovava lì per caso e con la guerra di mafia non ci entrava un cazzo.
Così il nostro scappò con i suoi nuovi compagni di viaggio e con l'adrenalina nel sangue. Da allora, Rino cicidda Tabbìt divenne Rino spara- spara..
A Loco Barone non ci volle molto tempo affinché le voci, sempre più insistenti sulla nuova attività del giovane, si facessero corpo ed anima tra gli abitanti.
Il padre di lui, solito grande lavoratore, si alzava alle cinque del mattino per andare a fare l'assalariato in campagna, mentre sua madre piangeva sempre a casa dei Cummo, maledicendo quel figlio bastardo.
Succedeva, magari, che in settimana c'erano due o tre morti ammazzati in città e si diceva che, almeno in uno di questi, c'era la mano personale di Rino.
Il giorno dopo si smentiva, perché c'era gente del quartiere che giurava di averlo visto a Palermo, proprio quel giorno, e quindi non poteva essere. Poi si capiva che poteva essere, eccome se poteva essere, dato che gli orari non coincidevano.
Fatto sta che a Rino, i suoi coquartierari, assegnavano la paternità di dieci e più omicidi, tanto che la cosa mandò in bestia anche la madre di lui che litigò con la sua sorella, zia di Rino, che sbandierava cifre uso fosse il capo della questura.
“ Ammazzò a questo, sparò a questo ed a questo e pure a questo”, sentenziava la donna.
“ Sì, sempre buttana ti ricordo che non lo hai mai potuto vedere il caruso. Allora, se è vero chiddu che tu dici, il surbizzo a Cabrò solo lui lo sta portando avanti?”, rispondeva la madre.
I due parenti si sciarriavano, vociando per le strade di Loco Barone , fino a quando i vicini non intervenivano a sedare gli animi inquieti. Finiva che le due sorelle andavano insiemola a casa dei Cummo e la madre di Rino scoppiava a piangere per il nervoso.
Quando la cosa diventò troppo sporca e le lacrime della signora Tabbìt toccarono ogni angolo del quartiere, successe che i tre amici fratelli di sangue del killer si riunirono e discussero serio.
Aldo Cummo propose di parlare direttamente con Rino e convincerlo a smettere.
A Fabrizio Spena che, con una gran pena nel cuore, chiese agli altri come fare giacché non si poteva parlare di queste cose in piazza o al bar; sempre il dentista, che sembrava essere il più incazzato di tutti, propose di portarlo nella campagna di suo fratello.
“ E se non si convince?”, domandò Giordano.
“Lo leghiamo e gliele suoniamo, fino a quando dice di sì”. Aldo era convinto di ciò che diceva ed aveva l'appoggio di Fabrizio. Solo Giordano era titubante.
“Se ci muore?”. Chiese.
“Meglio, cosi non farà più male a nessuno”, fu la risposta di Fabrizio. Si vedeva che aveva una rabbia in corpo che era commisurata a quanto bene aveva voluto a Rino cicidda.
“ Oh, picciotti, io famiglia ho!”. Smontò tutto Giordano e siccome anche gli altri avevano famiglia alle spalle, lasciarono perdere la questione di potere diventare assassini a fin di bene. Fu meglio così.
Tutte le guerre finiscono, così finì anche la guerra di mafia a Cabrò, dopo un centinaio di caduti, dopo lutti e vedove e bambini che cresceranno senza padri, senza fratelli. Per tale motivo, Rino spara- spara, rimase disoccupato.
Un giorno ritornò a Loco Barone come niente fosse successo, forse si sarebbe ostinato a riessere Rino cicidda, perché il tempo è stato creato per dimenticare.
Salutava tutti, pur notando che il rione era freddo verso di lui. Cercò, pure, i suoi tre amici fraterni, volendo parlare con loro; ma mentre Aldo e Fabrizio non volevano assolutamente dargli conto al momento, Giordano gli chiese se tutto fosse a posto.
“ Cerco solo un lavoro e basta”, si arrese Rino.
Così fu che Giordano se lo portò appresso nella serra, a seminare pomodoro ciliegino, a fare impianti e trattamenti. Notò che il killer lavorava sodo in campagna.
Passarono i giorni ed il lavoro procedeva bene.
Una volta successe che Rino e Giordano rimanessero soli a mezzogiorno, dato che questo ultimo aveva dato ordini agli altri di sollevare le pompe sommerse e pulirle, a mangiare le quattro cose che avevano portato nel porta pranzo di plastica.
“ Stamattina ti vidi smammare le piantine di pomodoro, ti persuadi subito nelle cose e sei già più bravo di chi fa questo mestiere da anni”, gli disse.
Rino stava zitto mentre l'amico si fece più serio.
“ Ma tutte quelle cose che si dicono di te vere sono Cicidda? Quanti ne ammazzasti?” .
Rino arrossì, si alzò e si allontanò, mentre Giordano prese il suo pranzo e lo buttò rabbioso lontano.
I due si rimisero a lavorare, facendo finta di nulla, scambiandosi solo qualche parola. Alla fine della giornata salirono in macchina per tornare a casa. La lingua d'asfalto che percorrevano era bollente mentre all'interno dell'abitacolo della vettura sembrava che una cappa di ghiaccio si potesse tagliare a fette.
“ Quattro”, disse Rino ad un certo punto e senza che nessuno glielo avesse chiesto. “ Tre ci sparai io ed il primo, dove morì lo studente, io non avevo la pistola”.
Giordano continuò a guidare imperterrito, poi, improvvisamente, diede una manata rabbiosa allo sterzo e fermò la macchina. Lo guardò in faccia.
“ Ma come minchia hai potuto, Rino? Ti talio e resto come un minchione”
“ Dello studente mi dispiaciu che non c'entrava”, il killer sembrava giustificarsi.
“ A meno male!”, l'onesto era inquieto.
“ E che fa mi mettevo a piangere?”, digrignò i denti.
“ No, che centra per cosi poco. E degli altri non hai provato niente?”
“ Del primo che ci sparai, quasi non volevo perché mi avvicinai troppo con la pistola lui si accorse…”
“ Ah!!”
“ Il mio collega mi gridava spara spara ed io sparai. Mi allordò tutto di sangue ed io, mentre scappavamo con la macchina, pensavo che ci avevo appizzato una maglietta originale della Benetton”.
“ Giustamente è accussì. E poi niente provasti di pentimento che facevi il killer? Come può esseri sta cosa, me la devi spiegare se non ti dispiace”.
“ Il terzo lo doveva finire un mio collega”
“ Collega di travaglio? Fammi un favore Rino, non li chiamare più così quei bastardi” .
“ Quello che doveva morire scappava e venne verso di me e mi toccò sparargli… Stò scimunito se prendeva l'altro marciapiede forse ancora vivo era a stura…”
“ Ed il quarto?” .
“ Il quarto fu una cosa sbrigativa: con la moto passammo a fullituni, io ero dietro, con l'arma pronta, lui era seduto fuori del bar Mambo, quello delle cantunere, che rideva con gli amici e non capì nulla di quanti colpì gli scaricai… il mio compagno diede gas e sparimmo… Si passa dallo ridere alla morte come se niente fosse”.
“ Già ora tu lo sai, dato che sei un esperto della morte. Ma dimmi una cosa?”. Si fermò un momento e Rino lo guardò attento mentre Giordano gli fece un cenno con la mano. “ Ma tanto così di pentimento lo hai mai provato?” .
“ Di che cosa?” , fu la risposta.
A quelle parole, a quella non curanza leggera che faceva pensare a quanto poco quello tenesse alla vita degli altri e della sua, Giordano ebbe un impeto, gli gridò di scendere dalla macchina.
“Come?”
“ Scendi porcu diavolo impestato!”
Rino scese sorpreso, mentre Giordano accelerò. Fatti cento metri di strada, lo guardò dallo specchietto retrovisore e si fermò. Tornò indietro e lo fece salire. Durante il tragitto non si parlarono più.
L'indomani Rino non venne a lavorare La madre disse a Giordano che il figlio aveva malessere ed egli fece finta di credergli, aggiungendo che il pane proprio al suo amico glielo avrebbe assicurato sempre e per tutta la vita.
Rino però non venne più al lavoro ed, anzi, per un certo periodo sparì da Loco Barone.
Lo trovarono due anni dopo nella campagna di San Calogero, tutto infangato.
- Due colpi alla nuca -, titolava il Giornale di Sicilia.
Ai funerali di Spara spara partecipò tutto il quartiere.
Fabrizio Spena , Giordano ed Aldo Cummo non abbandonarono la camera ardente neanche per andare a mangiare e piangendo gli parlavano come se potesse ascoltarli. Dopo portarono a spalla il feretro per tutto il tragitto che separava la casa di quello dalla chiesa, alternando il silenzio al pianto della madre. Non vollero alcun cambio.
Quel giorno fu come se qualcuno avesse rimosso un grande macigno che, rovinoso, era cascato per la lunga strada delle fornacelle.
Loco Barone, nessuno lo disse mai, sembrò rinascere sollevato.







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9 Agosto 2006
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