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POESIE
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Fortuna Della Porta
Le Poesie
di Fortuna Della Porta



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Svetta un unico grattacielo di cristallo nel quartiere più elegante della
città.

Negli ultimi cinque piani ci sono uffici impeccabili che sovrastano con
i vetri oscurati la selva di tetti e terrazze più in basso. Giusto al centro
della facciata ovest, quasi irraggiungibile con lo sguardo da parte a
parte, c'è poi quello ben più ampio e guarnito dell'amministratore
delegato Agretti. Si occupa di importazioni dall'oriente: pellami e
articoli già lavorati. Valigie per lo più.

-Luisa, per favore, faccia partire il contratto.

Il dottore parla all'interfono con la collaboratrice che si affretta a
rispondere:

-Già fatto, dottor Agretti, non si preoccupi.

Il tono di entrambi è pacato.

Agretti parla con un filo di voce. Sembra soffiare le parole, le lascia
quasi esitare tra i denti come inceppate dalla timidezza. Non somiglia
per nulla, pensa Luisa, ai cosiddetti mastini dell'industria e della
finanza dalla voce stentorea, soprattutto a quelli appena arrivati
all'apice, più boriosi degli altri, proponendosi con sobrietà nei rapporti
sociali e in particolare in quelli d'affari.

Luisa suppone che dopo tutto sia sempre questione di carattere.

Luisa è innamorata di lui da almeno cinque anni.


Chiamata a un colloquio per il posto da segretaria, dopo una
brevissima conversazione nell'ufficio del personale con un tale che
non aveva sollevato gli occhi dalle sue unghie rosicchiate, era stata
esaminata proprio da lui, con modi affabili, quasi premurosi, tanto che
lei per un po' fraintese lo scopo della convocazione, fissata a tarda sera
e con gli uffici tutti vuoti: un dubbio ingiustificato di cui si pente
ancora adesso.

Il comportamento di Agretti è rimasto negli anni educato e gentile
senza possibilità di equivoci, sempre inappuntabile da allora. Nessuno
dei due si è mai smarcato dai rispettivi ambiti, mai un atteggiamento
confidenziale, nonostante l'intendo comune di spingere gli indici
semestrali sempre più in alto.

A Luisa basta la presenza di Agretti.

Gli orari d'ufficio, aggiustati spesso su altri fusi orari, e quel nodo
irrisolto dei sentimenti che si porta dentro le hanno impedito di
coltivare altri interessi al di fuori del lavoro, soprattutto perché
nessuno che abbia tentato un approccio somigliava almeno un poco al
dott. Agretti.

Di lui ammira il rispetto e la generosità con cui interagisce con
chiunque, la lealtà verso il fisco e i concorrenti, in una parola la
rettitudine e poi la fronte alta, su cui i ciuffi di capelli cadono sempre
disordinati, le dita oblunghe con l'unghia quasi femminea, come una
mandorla: darebbe qualsiasi cosa per posarci le labbra. Luisa non lo ha
mai guardato diritto negli occhi né gli ha sfiorato una mano se non
casualmente. Il gruppo di famiglia, moglie e due bimbe col dott.
Agretti nel mezzo, troneggia nell'argento della cornice, accanto al
telefono, appena dietro il monitor del computer.

Anche quella foto l'aiuta a stare nel suo steccato.

Luisa non lo ha notato, ma in quelle prime ore del pomeriggio il dottor
Agretti è impaziente. Se fosse stata più vigile e non impegolata in

considerazioni inutili avrebbe registrato una nota alterata e insolita
nella voce di lui, una malcelata fretta, sillabe vicine vicine, quasi
appiccicate.

Sprofondato nella sua poltrona, intanto, il dottor Agretti getta uno
sguardo fugace alla foto di sua moglie e delle sue due gemelle color
vainiglia, col capo poggiato al cielo turchino -allo sfondo la cattedrale
di Reims- e cerca di sbrigare in fretta le ultime urgenze per regalarsi
un'ora tutta per sé. Fissa l'immagine con l'indifferenza che si riserva
agli sconosciuti, quasi guardasse oltre.

Tra poco accosterà la porta spingendo contemporaneamente il
pulsante della luce rossa e dirà a Luisa di non passargli chiamate di
nessun genere, poi chiuderà tutti i programmi di lavoro per dedicarsi
solo a lei.

Sta per buttarsi allo sbaraglio e ne è consapevole, ma non resiste più.
Deve vederla e toccarla.

Fremendo ha passato la notte insonne ma alla fine ha deciso.

La fronte luccica, il consueto ciuffo di capelli si sbilancia sulla fronte.

Daria è oramai tornata dalla scuola, ha di certo pranzato a quest'ora e
lo sta probabilmente aspettando dall'altra parte dei cavi e del suo
batticuore. Non la farà attendere: ha già la prima domanda pronta,
quella solita d'esordio.

-Quale parte del tuo corpo mi mostrerai al nostro primo incontro?

Era una richiesta alla quale Daria rispondeva sempre in un modo
diverso, ma la prima volta aveva scritto di getto:

-Il seno.

A lui si era aperta una voragine nello stomaco e quindi le aveva posto
tanti quesiti tutti insieme, sul colore degli occhi, l'altezza e cose così.
Le ragazzine di quell'età non hanno ancora imparato a mentire, ma con
Daria non era sicuro di nulla. Ogni volta si descriveva con connotati
diversi, gli gettava un amo e lo strattonava a sé.

È lei a condurre il gioco, Agretti ne è convinto.

Eppure, tre mesi prima, alla richiesta cruciale dell'età, Daria aveva
risposto seccamente:

-Dodici.

-Davvero? Solo dodici?

-Dodici!

Non gliene era mai capitata una così giovane eppure consapevole della
sua femminilità e del proprio ascendente sugli uomini e allora aveva
domandato una foto che in un baleno aveva visto comparire sul suo
computer. Daria era esattamente come l'aveva immaginata, ossia senza
un accenno di rotondità sulle ossa tutte esposte, tanto che i dodici anni
non li dimostrava nemmeno, coi capelli lisci e un peluche che faceva
capolino dietro le spalle, legato allo zaino. Daria non era come le
altre. Daria in pratica lo stava chiamando, lo stava seducendo.

Ad essere manipolato era lui.

Il dottor Agretti per la prima volta ha paura delle sue emozioni, perché
una bimba così perfetta può indurlo a qualsiasi leggerezza e difatti sta
accadendo, nonostante abbia imposto dei limiti precisi alle sue
fantasie, alle quali non ha derogato nemmeno una volta. Mai chiesto
ad una piccola amica un appuntamento o un numero di telefono.
Nemmeno una foto.

Con Daria era diverso.

Per il suo passatempo aveva scelto di chiamarsi Dan, scriveva di avere
20 anni, per il resto era convinto che una schermaglia di parole, spesso
un po' forte, ma senza seguito non poteva nuocere a nessuno.

Non era questo, infatti, che cercavano le sue corrispondenti? Un
linguaggio ardente per eccitarsi nel chiuso della loro stanza, appena
prima che gli ormoni avessero compiuto il misfatto di irrigidire le
membra asciutte, essenziali delle bimbe nella pelle indurita delle
donne adulte?

Prima dei quindici anni, le donne, considera Agretti, sono adorabili. È
dopo che si guastano.

Accende una lampada ora che il crepuscolo si fa strada disegnando
oscurità oblunghe e angoli inesplorabili, mentre affiorano nel ricordo
alcuni dei nomi inventati dalle giovani amiche avute in passato, spesso
bimbe tanto ingenue da credere al complimento più inverosimile. Con
l'esperienza aveva imparato cosa un'adolescente vuole sentirsi dire,
ossia che la mamma non la comprende, che un trucco ben visibile e
una gonna all'inguine vanno più che bene per andare a scuola, che le
compagne sono invidiose, che lei è bellissima e presto farà ammattire
gli uomini.

A quel punto Agretti si lasciava andare. Capiva di poter osare
arroventando il linguaggio e vedendo con la mente il rossore sulle
guance della piccola complice dall'altra parte. Nessuna che facesse
opposizione quando chiedeva se era disposta, intanto che digitava
sulla tastiera, a togliersi lentamente gli slip.

Non sapeva naturalmente quante avessero ubbidito alla sua richiesta,
ma erano delle tentatrici le minorenni. Aspettavano i suoi
complimenti. Lo attiravano nei loro trabocchetti solo perché era
debole. La vittima era lui.

Ma Daria non era stata allo schema. Si sentiva bella, non chiedeva
complimenti, voleva parlare di sesso, con una precocità che lo lasciava
sempre sudato ed eccitato.

Una volta era stata lei a domandargli:

-Mi permetterai quando ci incontriamo di…

Agretti aveva fatto un balzo sulla sedia e da allora non riusciva
neanche a pensare alla cosa senza trasalire.

Qualsiasi decisione stava per prendere non era colpa sua, ma di Daria
che sembrava filata col fuoco e suo malgrado lo stava inducendo a
comportarsi come si era imposto di evitare.

-Ti voglio incontrare, digita d'un tratto senza più dubbi.

Se si alzasse in questo istante, Agretti cadrebbe come un sacco vuoto,
tanto è sottosopra, ma in fondo il messaggio è generico, pensa, fatto
per essere confutato se la reazione non sarà quella prevista.

Ma Daria riesce ancora una volta a sorprenderlo. Come se possedesse
già un piano Daria scrive immediatamente che passerà due giorni sulla
neve con la classe e questa è una buona occasione per fissare un
appuntamento. Ci sono tanti modi per sfuggire alla sorveglianza e la
notte è lunga, insinua.

Ad un tratto lo pensa anche Agretti che prende nota delle indicazioni
sull'albergo e sui giorni della vacanza e poi si appoggia sullo schienale
della poltrona quasi in trance.

Ha un'altra questione da sistemare. Deve in primo luogo stabilire cosa
fare se il giocattolo gli si romperà tra le mani, com'è probabile.






La dimensione del tempo



La canoa è ingovernabile ora che Ricky ha perso la pagaia. I mulinelli gli gettano acqua ghiacciata sulla faccia e allora per qualche istante cerca di non prendere fiato. Non ricorda da quando sta combattendo con la corrente, quante volte è finito sotto il pelo dell'acqua, quante volte si è creduto non sul punto di morire ma già morto.
Ha conservato tuttavia la lucidità di non cedere all'impulso di spalancare la bocca e le nari e questo lo ha salvato; poi il miracolo di trovarsi presso l'impalcatura di un albero del quale la corrente non è riuscita ad avere ragione.
A fatica per i muscoli doloranti si afferra al ramo più basso e a quel punto è agevole raggiungere la terraferma. Prima ancora di guardarsi intorno si getta esausto sul terrapieno con le braccia spalancate sentendo per lo sforzo più che il freddo una sorta di taglio in mezzo alla carne. E anche più della fitta avverte l'orrore del pericolo appena scampato.
Un bambino di cinque o sei anni, con capelli a caschetto e gli occhi pallidi, gli si ferma di lato e gli domanda:
Sei morto, per caso?
Ricky gli sorride e domanda a sua volta:
Cosa ti salta in mente! Ti sembro un morto?
Quando si alza, il bambino continua a seguirlo e gli chiede di giocare, ma lui ha bisogno di tornare a casa. Il sole è tramontato e fra poco cadranno le ombre. Non ricorda quando è uscito di casa, ma ha fame.
Si accorge che il pericolo corso lo ha alterato. Cammina in una sorta di abbaglio, quasi in automatico, come se i pensieri, trasformati in immagini sgradevoli, si sovrapponessero alla strada.
Nell'ultima luce, nota alla sua destra corpi nudi e abbronzati di adolescenti stesi tra gli arbusti in un punto in cui il fiume forma un'ansa e la corrente si placa. Al suo livello gli alberi snervati dall'incipiente autunno seghettano il cielo turchino e poco più avanti nota un gruppo di ragazzini dalle guance rosa e i polsi arrotondati che si passano un'unica lattina di birra.
È sulla strada verso casa, la stessa da sempre, eppure irriconoscibile. Affretta il passo perché gli è passata la fame ma ha bisogno di dormire per avere ragione del suo stato di confusione, sicuramente dovuto alla lunga e impegnativa battaglia coi vortici. Non tollera quel senso di estraneità e si domanda perché non stia invece esultando, dopo essere uscito indenne dall'avventura.
Vede alla fine nella vegetazione la forma geometrica e il tetto di casa sua e tira un sospiro risollevato. Affretta il passo e grida:
-Mignon, sono tornato.
Mignon appoggia un vasetto di fiori sul davanzale di una finestra e si gira verso di lui, salutandolo con la mano.
Con passo traballante Ricky si affretta verso di lei notando la fitta ragnatela di rughe che s'intreccia sul viso di bellezza remota ma ancora percepibile.
Si ferma stralunato a domandarsi cosa ci fanno tante rughe su una ragazza di appena trent'anni.
 





Iperspazio


Con la mano tremante prese la maniglia e cautamente spalancò la porta. Una sala immensa gli si aprì davanti agli occhi e per quasi un minuto fu sopraffatto dal bagliore. Anche da quella parte cadeva perpendicolare una luce al neon, riflessa dal pavimento, tanto accecante da somigliare ai brucianti lampi del sole. Non poteva essere il sole perché la stanza non aveva finestre, ma solo un insolito numero di porte, molte su ogni parete, bianche e senza ornamenti, con una maniglia dorata e un foro per la chiave che però mancava.
Avrebbe voluto sedersi prima di riprendere la perlustrazione del luogo, cominciata già da alcune ore e che non lo stava portando da nessuna parte.
La stanza non aveva mobili o suppellettili. Somigliava ad un'enorme sala da ballo che spesso i più sontuosi palazzi della nobiltà annoverano, con pareti coperte di stucchi e di specchi. Anche qui, tra una parete e l'altra, gli specchi rovesciavano sulle superfici opposte ciò che raccoglievano, aumentando la sensazione di ampiezza fino al capogiro.
-Calmati, disse a se stesso, cercando di controllare lo stordimento. Non poteva cedere se voleva avere ragione di quel labirinto.
Ricordava di aver urlato, sulle prime, per richiamare l'attenzione di un custode che venisse ad indicargli il giusto percorso per venire fuori all'aria aperta. Una dimora importante e ben tenuta presupponeva una squadra di sorveglianti e addetti alla pulizia. Tutto appariva nitido, anzi nuovo, come appena costruito. Qualcuno lo avrebbe sentito. Trascorso tanto tempo però cominciava a sentirsi inquieto.
Subito era stato assalito da una sensazione di claustrofobia, nonostante l'ampiezza straordinaria di ogni locale in cui era finito, e subito aveva cominciato a segnalare la sua presenza urlando e picchiando sulle porte.
Si era perso come un bambino, ma non ricordava i dettagli. Durante il pranzo aveva bevuto e ora come sempre non ricomponeva le sue azioni successive.
Dopo una sbornia aveva sempre nei pensieri quel vuoto soffocante e la nausea, ma ormai era arreso. Da un pezzo aveva ammesso con se stesso di aver perso non la battaglia ma la guerra.
Solo quando aveva conosciuto Claudia aveva nutrito la speranza di farcela perché per sei mesi era riuscito a tenersi lontano dall'alcool.
Claudia era unica. Oltre ad esserlo fisicamente per il viso a cammeo e la pelle nivea sul corpo elastico, aveva un carattere dolce e un modo di arrossire per un nonnulla che le ragazze hanno dismesso da tempo.
E lui che le aveva fatto promesse e giuramenti sinceri nel giro di poco tempo aveva ripreso a tornare a casa ubriaco. Se avesse sospettato che neanche questa volta ce l'avrebbe fatta, per prima cosa avrebbe chiesto aiuto, ma era ricaduto senza un segno premonitore, senza alcun desiderio.
Proprio nel periodo più rilassato della sua vita, una sera aveva lasciato la macchina all'addetto al distributore di benzina perché in riserva ed era entrato nel bar come un automa, come se non potesse fare diversamente e la storia era ricominciata dallo stesso punto.
Claudia aveva fatto bene a staccarsi da lui, meritava di meglio, in ogni caso.
Per la verità si era diretto al bar solo per una minerale ma un tale litigava col barista per la quantità di cognac che gli era stata servita e indicava il livello del liquido che effettivamente era ben al di sotto del consueto. L'omaccione con gli occhi solcati da capillari e gli abiti luridi all'improvviso aveva girato le spalle e se ne era andato e lui all'improvviso, come se agisse un altro, aveva afferrato il bicchiere e tracannato il contenuto.
-Glielo pago! Aveva detto, sbattendolo poi capovolto sul bancone.
-Fa niente. Già pagato, mormorò il barista scuotendo la testa.
Il seguito era prevedibile. Non molte settimane dopo rientrò in una casa vuota, ordinatissima, come non lo sarebbe stata più. Claudia sembrava essersi portata via persino l'aria perché si sentiva soffocare. L'ultimo periodo insieme aveva corrisposto a un estenuante lunghissimo litigio.
Ritornò a fatica alla sua situazione e si sentì davvero smarrito. Non doveva distrarsi come stava accadendo se voleva liberarsi, ma era troppo stanco. Non seppe tuttavia calcolare nemmeno in maniera approssimata da quante ore girava a vuoto e neanche se era già notte.
Cercò di gridare ancora una volta, per richiamare l'attenzione ma gli venne fuori un raschio per la gola infiammata.
Ormai aveva il desiderio ruvido di qualcosa di forte e sperava solo che gli venisse sonno e a quel punto avrebbe pensato al da farsi non appena sveglio e con la mente finalmente lucida.
Si concesse un ultimo tentativo, prima di allungarsi sul pavimento. Guardò intorno per scegliere una delle porte, sperando che fosse quella giusta. Finora si era mosso sempre verso sinistra e così decise di provare con quelle sulla destra, che erano tante e non era facile decidere.
Si trascinò con le gambe pesanti pensando che se pure questo tentativo fosse andato a vuoto gli conveniva proprio distendersi e provare a dormire per qualche ora.
La porta si aprì senza cigolii su un lungo corridoio, sempre illuminato a giorno e allora Ben si sentì davvero perduto. Da quando era cominciata l'avventura non aveva dubitato neanche una volta di farcela o che lo avrebbero cercato e recuperato se non fosse stato capace di ritrovare la strada da solo. Invece aveva la sensazione di stare sempre allo stesso punto.
Era tanto spaventato che si portò una mano alla gola e a quel punto si domandò perché non respirasse.


da Racconti gotici, inedito






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9 Agosto 2006
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