Circolo Culturale il Gattopardo

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RACCONTI

Alessandra Libutti

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Imballaggio perverso

Interno di una casa. Padre, madre e bambino sono davanti ad un glorioso albero di Natale circondato di regali. Il bambino prende il suo grande pacco, lo scarta e trova il suo giocattolo preferito. Estasiato abbraccia mamma e papà. Poi tira fuori il giocattolo dalla scatola e ci gioca felice.
The end.

Dimenticate questa scena che fa più Hollywood, Disney o al limite Mulino Bianco. Nella realtà delle famiglie normali, è più plausibile una scena di quest'altro tipo:

Interno di una casa. Padre, madre e bambino sono davanti ad un glorioso albero di Natale circondato di regali. Il bambino prende il suo grande pacco, lo scarta e trova il suo giocattolo preferito. Estasiato abbraccia mamma e papà. Poi non riesce a tirare fuori il giocattolo dalla scatola.
"Papà, ma non capisco come si apre!"
Papà sorride e accorre in suo aiuto.
"Aspetta, caro, che ci penso io." Gira la scatola sotto e sopra in cerca di appigli, aperture, eventuali meccanismi, ma la scatola è un capolavoro d'ingegneria parallelebipeda ed è tecnicamente inespugnabile.
Il bambino attende paziente e fiducioso. "Aspetta, vado a prendere le forbici." Suggerisce la mamma.
"Ma no, non servono le forbici." Sostiene il papà sicuro del fatto suo.
"No, mamma, le forbici no, sennò rovini la scatola."
Dieci minuti più tardi, dopo numerose osservazioni e studi di stampo tecnico e occhio calibrato, il papà si rende conto che la scatola è interamente rivestita di una pellicola adesiva trasparente che la sigilla tipo cemento a presa rapida. "Bé, sì, forse è meglio che prendi le forbici."
Lei va in cucina, apre il cassetto e cerca le forbici nel posto usuale, ma naturalmente non ci sono.
"Dove hai messo le forbici l'ultima volta che le hai usate? Qui non ci sono."
"Ma dove le avrai messe tu. Io è una vita che non le uso."
"Ma sì che devi per forza averle usate tu. Io le rimetto sempre a posto qui, se non ci sono vuol dire che le hai usate tu."
La mamma innervosita prova tutti i cassetti di cucina, ispeziona il bagno, la camera da letto, apre tutti gli armadi ma le forbici sono state probabilmente rapite da un poltergeist.
"Tieni, prova questo." Dice lei passando al marito un coltellaccio stile Shining.
Il bambino ha ora dipinto sul volto uno sguardo vicino alla disperazione.
Il papà afferra l'arma, dapprima la utilizza come un bisturi, segando attentamente i lati della scatola, seguendo le linee verticali e orizzontali che, secondo logica, dovrebbero dare accesso al contenuto, poi visto che la scatola rimane emerticamente inaccessibile si avventa sul cartone in preda ad un raptus assassino.
La stanza ora gronda di frammenti di cartone e di polistirolo. Il papà ha un taglio che richiede un first aid immediato se non il pronto soccorso. E' stanco, sfinito e con la mano fasciata. Il bambino si avventa ansimante sul giocattolo che purtroppo, pur essendo ora visibile, è ancora saldamente ancorato alla scatola interna.
"Ecco, guarda amore, ora basta un minuto. Togliamo questi due gancini e lo tiriamo fuori subito." Dice la mamma convinta che il peggio sia passato.
Purtroppo i due gancini sono in realtà dodici pezzi di fil di ferro avvitati sul retro, il quale è irraggiungible perché rivestito di uno spesso strato di plastica trasparente, neanche avessero paura che scappasse. Alla mamma non resta ora altra scelta che afferrare il coltellaccio, deturpare la scatola interna e poi districare meticolosamente i fil di ferro che ancorano il giocattolo alla scatola, alla plastica e la piattaforma.
Il bambino è in lacrime. Ha già avuto alcune crisi isteriche ed è stato minacciato di essere mandato a letto senza giocattolo. Visto che la mamma ha tolto tutti i fil di ferro, afferra il giocattolo, ma purtroppo anche questa volta si ritrova tutta la scatola interna in mano.
"Aspetta, mi sa che me ne sono dimenticata uno." Suggerisce la mamma.
Il papà controlla e riprende le redini della situazione. "Ah, ma questa è una vite. Ci vuole il cacciavite. Vammi a prendere il cacciavite, va."
Il bambino urla. "Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lei non trova il cacciavite.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lui va a cercare il cacciavite con lei, ne trova uno ma non va bene.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lei ne trova un altro ma è troppo grande.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lui butta tutto lo sgabuzzino all'aria e trova un cacciavite che va bene ma ha il manico rotto.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lei si lamenta che lui ha buttato tutto all'aria.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lui ribatte che almeno ha trovato quello che cercava.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lui litiga con lei.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lei litiga con lui.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
Lui e lei strillano al bambino.
"Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo! Voglio il mio giocattolo!"
La casa è ora un caos di oggetti gettati alla rinfusa, di grida e scene d'isteria. Quando alla fine si trova il cacciavite e si libera finalmente il piccolo robot dalla sua gabbia di cartone sono tutti sfiniti e i rapporti interpersonali sensibilmente degenerati.
Il bambino asciugandosi le lacrime accende il giocattolo. "Ma non funziona!"
Lui e lei si guardano sconvolti.
"Le pile..."







LH45

La sveglia di Matteo azzanna alle cinque e trenta del mattino.
Bip bip. Bip bip. Bip bip.
In strada, sotto la pioggia, sfreccia l'ultimo notturno da Trafalgar Square. Qualcuno scende. Nessuno sale ed è buio pesto. Ma d'altra parte è il quindici di ottobre e questa è Londra, il sole sorge alle sette e quarantacinque.
Cinque e trentasette.
Bip bip. Bip bip. Bip bip.
Due dita annaspano sul comodino. Chi è nel letto ha ancora voglia di dormire, e tanta.
Cinque e cinquanta.
Parte la radio.
Seconda chiamata.
Matteo si muove automatizzato, avvia la stufa e si ributta nel letto. Entra in un dormiveglia confuso e veloce. Poi strofina gli occhi con impazienza. Il risveglio è un'operazione delicata. Richiede un certo savoir faire.
Sui vetri ora c'è condensa, ma il sonno è duro a morire. E' indeciso se compiere la mossa fatale o no. Ogni risveglio è un bivio.
Eppure non è l'unico a svegliarsi, nel building. Tre sciacquoni si susseguono a catena. La luce del corridoio percorre le fessure. C'è chi dice buongiorno e chi si dà la buonanotte. E' Cesare che fa il buttafuori. Ma domani, cazzo, è off.
Una porta sbatte.
Sei e quindici.
L'altra sveglia.
Ultima chiamata.
Tre sveglie è il savoir faire di Matteo. Ma non ne basterebbero cinquanta.
Spalanca gli occhi.
Sei e diciotto.
Porca puttana.
Gli restano nove minuti e ventitre secondi per alzarsi, lavarsi, vestirsi, fare colazione e affidarsi al destino. Se Dio ha creato l'universo in sei giorni, Matteo ha ancora tanto da imparare.
Sei e ventisette.
Marika, direzione Bar Italia, trattiene il 77A. Un ombra, camicia sbottonata, dreadlocks biondastri ammassati e giacca infilata in una manica, s'arrampica incollato e spiattella la travelcard sul vetro del driver, il quale come di consueto è nero e incazzato come una jena.
"N'altro po' e lo mancavi." Dice Marika che già ha catapultato la minigonna al secondo piano.
Sulle scalette due gambe spigolose e compatte, strette in un paio di jeans neri slavati, la seguono per forza d'inerzia. Le luci dei lampioni s'inseguono al di là del cinemascope. La bocca è impastata e ha voglia di fumare.
I due si accasciano come sull'otovolante. Il bipiano rosso punta le pensiline e inchioda. Sul pedale del freno il piede si accanisce come un pollice sul joystick d'un aracade. L'accelerazione è da formula uno.
Sei e trenta.
"Aho ma questo è matto! A Matté..."
"A Marika..."
Poi ripiombano in una sonnolenza embrionale.
Sei e cinquantadue.
Vauxhall. Victoria Line. Il tube è in agguato. Le porte si spalancano. Quattro piedi avanzano, venti dita fanno mambassa sulla sbarra e due culi si riversano sul soffice in una piroetta. Stanno l'uno davanti all'altra. Non vola una mosca.
Sette in punto.
Oxford Circus.
"Allora ciao."
"Allora ciao."
"Che fai stasera?"
"Non lo so." Risponde Matteo che vive sul chi vive.
"Noi famo la pizza alla quattordici. Famo pure le bruschette. Giancarlo oggi prende il sussidio. Dice che compra pure il vino e un po' de fumo. Ce vediamo tutti alla quattro ch'è la più grande. Ce vieni?"
"Non lo so." Dice Matteo che si è rotto i coglioni di rompersi i coglioni. Occupa la tre: uno sputo e un letto. Il buco del culo del mondo. Però non vuole compromettersi. Ha altri piani in mente. E si chiamano tutti Liliana.
"Allora ciao."
"Allora ciao."
Marika sparisce direzione Central Line. Al Bar Italia pagano una sterlina e ottanta pence l'ora. I dreads deviano verso la Bakerloo. Due sterline tonde tonde. C'è da scialare.
Sette e tredici.
Bakerloo Street. Un piccione sterza davanti a Matteo. Sulle scalette c'è chi vende Big Issue. Da Costa qualcuno si rifugia in un cappuccino annacquato.
Là fuori è ancora buio pesto.
Altra pensilina. Hammersmith & City Line. Passano nell'ordine: la Direct, la Central, la Direct, un'altra Direct, ancora un'altra Direct, nuova Central, si ripassa alla Direct.
Porca puttana.
Sette e trentadue.
Rintanato dentro la giacca, Matteo sonnecchia sulla panchina e legge le targhe sui muri: Ristrutturata nel... E' scoordinato in quel frangente. I chip mal programmati.
Sette e trentotto. Rosa come un fiorellino la Hammersmith sfreccia e frena in un rigurgito di arti appesi e sospesi. E' la quinta bolgia, ma Matteo è in un ritardo stratosferico. Prende la rincorsa e tira pugni. Si scusa e poi se ne sbatte.
Otto e sette minuti.
Westbourne Park.
Sotto la pioggia, bavero rialzato, attraversa a passo allungato il parco. La tramontana sferza a centocinquanta. Qualche coglione fa jogging. Qulache altro porta a spasso il cane e raccoglie la merda con un sacchettino e la getta nella spazzatura.
Matteo saltella e butta la testa all'indietro. I percorsi quotidiani lo ipnotizzano di dettagli. Due muraglioni di graffiti gli fanno compagnia. C'è luce, ma poca e grigia.
Sbuca fuori dal parco e costeggia il canale. E' una nebbiolina sottile e mansueta quella che lo avvolge. Passa la Mute, si avvia verso la Virgin. La zona è un cesso ma qui si stampano tanti dischi. Cazzo. Attraversa il ponte su Harrow Road e spalanca la porta d'un sandwich bar che puzza di formaggio rancido. Non è esattamente con questa idea in testa che ha attraversato le Alpi e la Manica.
"Sei ritardo." Dice l'armeno col dito sull'orologio. Ha due occhi d'avvoltoio, capelli corvini, naso aquilino. Un miracolo d'ornitologia, l'armeno.
Il resto della giornata è un purgatorio senza redenzione.
"Tagliare pomodorini più sottili. Usare meno. Bene per cassa. Più veloce."
Dodici e trenta.
Ora di punta.
La fila è istituzionale, cortese e indefessa. Al di là del bancone il polso repentino. Si pensa poco. L'attenzione è imbottigliata negli accenti spigolosi. Più che capire si lavora di fantasia. C'è intuizione e manovra di destrezza tra lo scroscio di parole. Si risponde per monosillabi e vocali. E si storce il naso.
Lasagne, maionese, insalata e cappuccino. Voilà. Il pasto è servito.
L'armeno è radioattivo.
"Spalmare più maionese su lasagne. Preparare cappucino. Scusare. Ragazzo poco pratico. Italiano."
Porca puttana.
Poi l'armata si ritira e il sole li insegue.
Coltello, ramazza, straccio.
"Pulire bene sotto gli angoli. Ieri lasciare pezzetti in angolo."
Sedici e trenta.
La busta paga arriva senza clamore. Tolte tasse, affitto e travelcard, restano dodici sterline e venti pence per le sigarette e la bella vita (ed è proprio a quella a cui Matteo pensa con la complicità di Liliana). Stasera al Forum c'è Henry Rollins, cazzo.
Intanto fuori la notte non s'è fatta aspettare.
Il ritorno è tutto in discesa, ma è una missione ancora da compiere. Le insidie sono tante e spinose. La posta in gioco il ritorno a casa. E' la legge di Darwin. La Hammersmith è compatta, la Bakerloo inavvicinabile. A Oxford street hanno evacuato. C'è una bomba. Dicono. Ed è già la quarta in due settimane. Matteo sterza verso la Central e fa girotondo. Dopo cinquantasette minuti appeso alla sbarra approda a Victoria Station.
Sulla Victoria si susseguono i treni. Ma Oxford Street è chiusa e qui c'è tutta Londra. Si lavora di gomiti, passetti e spostamenti decimali: dalla scalamobile alla pensilina si passa lo Stige. Quattrocentocinquanta sardine per vagone. Alla fine Matteo s'incunea a spintoni. Le porte gli spiaccicano un tallone. Non ha neanche bisogno d'aggrapparsi. E' una sospensione di corpi, giacche e borsoni che perforano le costole. L'ossigeno è un lusso.
Ma c'è ancora da sudare.
A Vauxhall il 77A è dato per disperso. Dalle scalette del tube le nuove orde si aggiungono alle lamentele dei dannati. Quando alla fine arriva, l'autista ha finito il turno, molla il bisonte, chiude le porte e se ne va. Matteo accende una sigaretta per scaramanzia. Poi se ne fuma altre cinque. Osserva un tipo in maniche corte e shorts. Il freddo gli ha fatto venire appetito. Ha bisogno d'una doccia. E calda.
Sull'autobus pensa veloce Matteo, ma disordinato. E' distratto dalle voci, i nasi adunchi e a patata, le capigliature folte e rade, gli abiti da mercatino e quelli di Top Shop. Gli squittii dei cellulari e i walkman mistificati ma inarrestabili.
Diciotto e ventisette.
Dopo dodici ore, la porta si spalanca ed è tornato al punto di partenza.
Il building è illuminato a festa. Sono tornati tutti (o quasi). Nel corridoio c'è Assunta con una teglia in mano.
"Ciao. Stiamo preparando l'impasto. Vieni stasera?"
"Non lo so. Al Forum c'è la Rollins Band."
"Chi?"
Porca puttana.
Diciotto e trentaquattro.
Matteo punta alle docce ma c'è la fila. Dentro c'è Augusto e sono cazzi. Marika ha lo shampoo in mano. Brutto segno. Liliana non torna prima delle sette. In ventisei minuti ce la dovrebbe fare. Quanto all'acqua calda è un sogno. Il privilegio dei primi. E lui naturalmente è in fondo. Prova al piano di sopra, ma qualcuno ha smontato il boiler. Riscende e dietro Marika s'è aggiunta pure Beatrice.
Voci s'incrociano tra i piani.
"Chi èèèèè che ha presoooo l'hooveeeeeer?"
"Cel 'ha Ceeeeesareeee!"
Aspetta e fuma.
Sette e quindici.
Pulito, congelato e rivestito e d'un'eleganza esaltata da un cappottone rimediato al charity shop, Matteo bussa alla nove.
"Liliana sono Matteo"
In fondo al corridoio Giancarlo compare allampanato carico di vino e d'allegria.
"A Matté, ho preso i soldi del sussidio. M'é arivato pure l'housing co' du' mesi d'aretrati. Stasera s'arincojonimo!"
"Sai se è tornata Liliana?"
"Lillì oggi ha fatto sega. S'è data ammalata. Sa semo fatti l'aglio e ollio e du' risate. E' 'scita alle cinque colla chitara. Annava alle prove."
"Sei sicuro?"
"E che nun ce lo so? E dai, vieni su. Che stai a fa' lì come uno stronzo. Guarda che Lillì c'ha altri grilli. Bazzica altri porticati."
Il naso di Valeria sbuca dalla otto. Pigiama e aria assonnata.
"Che cerchi Liliana?"
Giancarlo sta già sui gradini.
"A Valé ma sei già annata a dormì o te sei appena svejata?"
"A Gianca' lasciame sta che c'ho mal di testa."
Matteo ha l'espressione dello stoccafisso.
"Liliana annava a un concerto stasera. Ma non me ricordo de chi. Però me sa che c'annava co quelli co' cui suona."
Il deca di Matteo è in bilico sulla tasca. Senza Lillì la serata è andata a farsi fottere.
"Matté..." ridice Giancarlo "Mettice 'na croce sopra."
Dall'alto squilla Federico.
"La farina! Porca miseria. Ci vuole più farina."
Dal basso ribbatte Augusto.
"E mo' l'annamo a comprà. Marikaaa! E daje che ce vole più farina. Pija la giacca che il groucery chiude."
"Fede. I pomodori ce l'hai?"
"Sììì."
"E la mozzarella???"
"Pureee."
"Vabbé mo te pijamo la farina. Matté c'accompagni a pija la farina?"
Il trio muove in direzione groucery. Sei passi fuori della porta. Si chiama "Cost Cutter", ma al building lo chiamano "Bulgari". Attraversano la strada come in un film di Sergio Leone.
"Malimortacci loro. Due e venti un pacchettino. Ma questi so' de fiji de 'na mignotta."
Augusto ha agguantato la farina e la lancia a Marika. Davanti al settore latte, Matteo cerca un barattoletto di yogurt alla fragola ma è finito.
"Aho, ma se fidamo de un milanese pe' fa' le pizze." Spintona da dietro Augusto.
"Se n'se fidamo de lui, fa il pizzettaro." Ribatte Matteo.
"Matté che ce l'hai cinquanta pì. Non c'arivo." Grida Marika già in fila.
"Aho. Mortacci suoi, Federico pija tre e venti l'ora." Dice Augusto: uno e settanta più le mance. Fa il porter in un quattro stelle.
"Lillì ne prende quattro e trenta." Marika.
"Lillì c'ha i giri suoi." Augusto.
"Ma perché non ve fate li cazzi vostri." Matteo.
Stanno dritti davanti alla cassa con un cestello vuoto e un pacchetto di farina in mano. Davanti un'ottuagenaria depone il malloppo al rallenty: lattuga, latte, salsicciotti plastificati, pane in cassetta e spaghetti in scatola.
"Ma come cazzo magnano?"
"Augù, e statte zitto che questi magari pure capiscono."
La pakistana conta il resto e lo depone sulla mano dell'ottuagenaria che lo riconta confusa. La merce sparisce nel carrellino.
"Il lievito ce l'avranno?" Marika.
"E mo' come cazzo se dice lievito in inglese?" Augusto.
"Yeast." Matteo.
"Ce l'avranno 'sto ieaistt?" Augusto.
"Augù, io glielo pijo lo stesso. Matté che ce un altro pound e trenta? A me me pagano venerdì. Il resto della spesa l'ha fatta Giancarlo. Mo' che ha pagato i buffi sta senza 'n penny pure lui."
Addio Henry.
Alla quattordici Federico impasta coi Portishead. Nobody loves me... E canta. Assunta e Beatrice passano l'aglio sulle bruschette. Valeria taglia la mozzarella. Armando è addetto al pomodoro.
Quando salgono è già party.
"L'avete accesi i forni?"
"Giancarlooo!!! L'hai accesi i forniii???"
"Sììì. Alla sedici, la dieci e la diciotto. Ne volete altriii???"
"Nooo. Bastano. Portaci le teglieee."
Carla imbocca la porta con Mike.
"Ciao Mike" Dice Beatrice con due occhietti da cerbiatto. Dinocolata e ondulata.
"Hi Beatrice." Dice Mike in tenuta da gala.
I riflettori sono su di lui.
"Che mangi la pizza con noi?" Beatrice.
Carla traduce.
"Yeah. Pizza. Yeah."
La coppia risparisce.
"Ma chi cazzo è?" Federico.
"E' l'omo de Carla. Viene dai Caraibi. E' uno fico." Valeria.
"Secondo me c'ha i sordi." Marika.
"Lavora alla city. Gli escono dalle orecchie." Beatrice.
"Carla l'ha preso il sussidio?" Assunta.
"No, sta ancora a aspettà. Dicono che hanno perso le pratiche. Ha dovuto rifà tutto daccapo. Mo' je tocca aspettà altri due mesi." Giancarlo.
"Vabbé ma se c'ha l'omo coi sordi..." Marika.
"Che la potemo toje 'sta lagna. Metti Venditti che è meglio." Valeria.
Ma Matteo è già in pole postion alla consolle: un radiolone comprato di terza mano a Camden Town. E' di Lillì, ma è proprietà di tutti. Mette Music For The Jilted Generation e si distende allampanato. Lui e Lillì l'hanno comprato insieme a Soho. Lui e Lillì sono in sintonia, quando gira a Lillì.
"Matteo. Che fa Liliana stasera, viene?"
"No. Magari ci raggiunge più tardi." Dice rollando.
"Seh!... nell'anno del mai! Lillì c'ha dato buca. A Matté fatte 'na bevuta e infarcisci perché ce n'avemo pe 'na settimana. Carica. Anzi, stra-ca-ri-ca."
Giancarlo ha stappato tre bottiglie. E' addetto alla mescita. Parte il brindisi a dodici mani.
"Alla salute delli mejo mortacci loro!"
"Alla salute."
Ventidue e quaranta.
La pizza è consumata ma non ancora digerita. Il vino un ricordo. Michela lava i piatti. Augusto raccoglie le teglie e le posate. Valeria scarica la spazzatura. Gli altri sono ammassati alla quattro che è la più grande.
Giancarlo ha preso la chitarra e le ragazze cantano Wish you were here. La cortina di fumo si taglia con il coltello.
"Chi è che va all'off licence prima che chiude?"
"Vado io." Dice Federico che ha sette sterline che hanno voglia d'essere bevute.
Ventitre e quindici.
Matteo sta affianco alla finestra e guarda fuori. E' già l'ottavo 77A, ma di Liliana neanche l'ombra. Augusto è in tresca con Beatrice. Assunta ha puntato Cesare. Mike e Carla parlano con Valeria. Giancarlo posa la chitarra e rolla. Qualcuno la spunta e mette il CD di Venditti.
Giù in strada il pub sta per chiudere. Due ubriachi fanno a botte. Una donna strilla. Un altro piscia sul muretto.
Che bella città.
Matteo si accascia e fuma.
"Ah chiacchiero'..." dice Marika accoccolandosi, "perché non andiamo alla mia? Stamo più tranquilli."
Lui la guarda e dice:
"Annamo và."
Spariscono su per le scale.
La stanza di Marika è piccola come quella di Matteo ma più ordinata. C'è un romanzo di Milan Kundera con un orsacchiotto sopra. Profuma come un campo di fiori.
Si siedono sul letto e rollano Golden Virginia.
"Tu ce pensi mai a ritorna'?" Dice lei.
"A fa' che?"
"Ma non te manca Roma?"
"Sì, e allora? Perché te vuoi tornare?"
Marika ride dietro il caschetto nero. Ha gli occhi furbi e vivaci.
"A fa' che? Mi padre m'ammazza. Però Londra m'ha scassato."
"Pure a me, ma 'sti cazzi."
Matteo fuma con la testa reclinata all'indietro. Lei lo guarda con un gomito appoggiato al mento.
"Perché non pijamo l'income pure noi? Se ce danno pure l'housing stiamo meglio di dieci pound la settimana. Qua stamo a lavorà come due stronzi."
"Non lo so. Io tiro fino a dicembre. Poi vedo."
"Vedi che?"
La scollatura di Marika regala un'immagine gradevole. Ma Lillì è sempre Lillì. E lei non è ancora tornata.
Porca puttana.
Matteo allunga la mano. Marika distende le labbra. La stanza vira di quarantacinque gradi. Fuori piove e lei spegne la luce.
E' un amplesso affrettato e scomposto, senza slanci né passione, poi si addolcisce. Arrivano le carezze e i corpi combaciano.
L'una e trentacinque.
"Dormi qui?"
"No il letto è piccolo. Scendo alla mia."
Tra le pieghe delle lenzuola a mano a mano riaffiorano i vestiti. Quando Matteo apre la porta è in mutande, con un fagotto e le scarpe in mano.
"E bravo Matteo..."
Sul pianerottolo davanti a lui c'è Liliana occhi a mandorla, con la chiave nella serratura che gli strizza l'occhiolino e sorride.
La bocca di Matteo è una voragine piena di voglia di morire. Sta per replicare ma Liliana gli ha già augurato la buonanotte e richiuso la porta.
Le due in punto.
Sotto le lenzuola, Matteo contempla il soffitto contando i riflessi delle veneziane.
Tre ore e mezza e poi:
Bip bip. Bip bip. Bip bip.





La Saga dei Patel

Da sempre i dentisti suscitano inquietanti sensazioni, sconcertanti visioni in cui riaffiorano alla memoria torture da lager nazisti, immagini de "Il maratoneta", trapani roteanti che si avvicinano preoccupantemente a qualcosa di saldamente ancorato e discreto che, sotto i nostri occhi spalancati contro un'alogena, non siamo più poi così tanto sicuri abbia veramente bisogno di cure. Varcare la porta d'un dentista è aggrapparsi a Caronte e pregarlo di non attraversare lo Stige e, previa magari bustarella, che ti riportasse indietro nel paradiso della dentatura perfetta, dello smalto inattaccabile, del fluoro inesauribile. Invece eserciti di tartaro hanno già varcato la frontiera, corroso i confini, eretto ad imperatrice la carie e fatto capannelli sulle gengive.
Fin dalla nascita, quello della dentatura è un supplizio che ci arriva in dotazione ma senza garanzia. Prima siamo sdentati, poi spuntano i dentini di latte e poi cascano giù, arrivano i rinforzi, all'arrembaggio, privi di coordinazione: chi a destra, chi a sinistra, chi di sbieco chi a mezz'asta. Te li ingabbiano, spingono, tirano, spostano, strizzano, pungono, trapano, incapsulano, cavano, rimpiazzano, ribucano, rimontano, finché non te n'è rimasto manco uno. Poi tanto crepi - fine dell'odissea.
Dietro ogni essere umano si cela un Pincher Martin, annaspando nell'esistenza aggrappato sullo scoglio d'un molare (generalmente cariato).
A Londra i dentisti sono tutti indiani e si chiamano tutti Patel. Il primo Patel fu detto "il macellaio", dopo aver estirpato denti a mezza comunità italiana residente nel "building" di LH45. La seconda Patel, Kharisma, mi toccò qualche annetto dopo, causa frantumazione d'un molare. Dopo raggi X ed un attenta analisi della situazione, mi assicurò, incurante delle proteste che il dente era assolutamente a posto. Tre settimane e due scatole di antibiotici dopo nel togliermelo, e contando i centoventicinque frammenti sul piattino, ammise di aver fatto un errore di diagnosi. Dopo il suo trasferimento ad un nuovo studio poi, finalmente arrivarono altri due Patel: Dirkam e Hema. Io, sciaguratamente fui subito affibbiata al primo. Dirkam Patel, nella vita avrebbe potuto fare qualsiasi cosa e certamente gli sarebbe riuscita benissimo, ma quello del dentista non è certamente il mestiere suo. Con due occhialoni spessi come cocci di bottiglia, si affaccia sulle tue fauci con quest'aria incerta e sonnacchiosa, e non importa quale sia l'entità del danno, le dimensioni della carie o il tuo stato d'animo nel momento in cui ti sottoponi alla visita come davanti ad un plotone d'esecuzione, non importa. Qualunque cosa ti trovi in bocca, già sai che preparerà il siringone e con aria da 'ndo cojo cojo te lo infilzerà come una mannaia dentro una gengiva che te già sai comunque essere quella sbagliata. Dopo averti detto: "5 minuti", aver gironzolato per lo studio, ignaro di te che gesticolando cerchi di fargli capire che ti ha anestetizzato il dente sbagliato, ritorna all'attacco. ZZZzzzZZZzzz il trapano s'avvicina pericolosamente al dente totalmente sensibile. Due manine annaspano dalla poltroncina come zampette d'uno scarafaggio ribaltato, e te, sentendoti infinitamente Kafkiano, vedi quel trapano come un grosso piede che sta per schiacciarti.
AAAAAAAHHHHHHHH!!!!!!! Gridi non appena la punta ruotando a velocità supersonica ti squinterna tre fasci di nervi, trincerando aculei direttamente al cervello.
Dirkam si ferma e ti guarda perplesso.
-E' ancora sensibile?
-Eh, un pochino. - Replichi cercando di liberarti di tutte le stelline e passerotti che ti svolazzano intorno.
Dubbioso che gli stia dicendo la verità, convinto della tua ipocondria, mano all'orologio in vista del paziente successivo, il dottor Patel affonda allora un altro siringone, anche questa volta mancando completamente la traiettoria del nervo. A quel punto, l'intero lato facciale è in uno stato di paralisi forse irreversibile, la lingua un pachiderma afflosciato al fondo del palato. Se non presti attenzione te la mozzi e neanche te ne accorgi. Ma naturalmente, in questo deserto sensoriale c'è ancora un'oasi... il fatidico dente. Dirkam Patel riprende mano al trapano e non con un singolo dubbio in mente che ehm... ancora tu possa sentire qualcosa, lo affonda nella carie come un martello pneumatico.
AAAAAAAHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Gridi, poi tirisvegli mentre ti schiaffeggiano le guance.
-E' mai possibile che faccia ancora male???
-Ehhhhhhhh.....ehhhhhh... pochino.
Stufo e arcistufo e deciso a sbarazzarti di te al più presto, riafferra il siringone e: buca qua, buca là, t'innietta abbastanza anestetizzante per rifare la dentatura all'intera nazione indiana. Completamente inebetito, raggiungi la pace dei sensi. Cominci ad ascoltare Gandhi sulle rive del lago, canti Hari Krhisna, ti converti all'hinduismo.
Due giorni dopo il trattamento, l'otturazione salta e ci devi tornare.





come i faraoni

In occasione del suo compleanno, mio fratello aveva regalato a mio padre un bellissimo rasoio elettrico, sogno dei sogni, richiesto, coccolato, accarezzato da tempi immemorabili.

Il magico accessorio (capace forse, oltre che a rasare la barba con effetti speciali, anche a svolgere calcoli trigonometrici, lanciarsi in traiettorie ipervirtuali, operare simulazioni di volo), era stato consegnato al genitore quando già era in ospedale e, data la situazione, utilizzato non più di un paio di volte malgrado fosse conservato assai gelosamente nel cassetto del comodino, sempre a portata, battendo nell'ordine di preferenza: telefonino, radiolina trasmettipartite, minitelevisione per la domenica sportiva, Corriere dello Sport, fedele papalina.

Ad ogni modo, alla sua morte, gran parte di ciò che sedeva sul comodino era finito nella spazzatura senza troppi rimpianti, quasi a voler cancellare al più presto ogni traccia che a lungo andare avrebbe potuto dare adito ad una sorta di feticismo doloroso. In casa s'è sempre stati spicci e sbrigativi e soprattutto ben poco melodrammatici. Per il resto era una corsa contro il tempo a ripulire e riorganizzare tutto per un rientro immediato alla normalità rassicurante. Come se l'evento tragico non fosse che una semplice interruzione di un discorso che sarebbe comunque continuato.

Si salvarono dunque solo il telefonino, la televisione e, ovviamente il rasoio elettrico ancora gloriosamente adagiato nella sua confezione originale.

Mio fratello aveva chiesto di poterselo riprendere e tenere. Così, dato che il resto della famiglia godeva di problemi di rasatura facciale fortunatamente inesistenti, e considerato che era il suo regalo, insomma considerato l'ovvio, la questione eredità era stata liquidata velocemente senza bisogno di notai o conseguenti beghe legali.

Fu così con stupore che il giorno del funerale, mentre ci recavamo all'ospedale, mia madre notò la scatola nella macchina di mio fratello.

- Ma questo non l'avevi già messo via?

- Ci ho ripensato.

- E allora che cosa ci vuoi fare?

- Faremo come i faraoni!

L'idea colse tutti abbastanza di sorpresa. Non l'afferrammo al volo, ma dopo il primo attimo di smarrimento, fu applaudita ad unanimità Ad ogni modo nessuno di noi aveva preso la cosa sul serio. Insomma sembrava una di quelle sparate surreali su cui poi avevamo cominciato a costruirci su tanto per poter ridere almeno un po', finendo per imbastire un'intera sinfonia da una semplice nota (mia madre proponendo anche la scacchiera, mia sorella il mazzo di carte ed io la papalina).

Fu solo quando fummo lì che, procedendo dall'alto in basso destra verso sinistra, l'occhio cadde su di una scatola adagiata ai piedi del genitore, ricoperta soavemente di tulle.

- Allora, possiamo chiudere?

- Sì sì, - rispondemmo in coro, tutte e tre a bocca aperta mentre mio fratello s'era dileguato chissà dove.

Nessuno infatti, eccetto noi, aveva fatto caso alla piccola faraonica anomalia.


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9 Agosto 2006
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