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Daniela Manzini Kuschnig

Le Poesie
di Daniela MaKuschnig



Sotto la pioggia

Ma adesso io, ecco, guarda, no dico, guarda bene mi prendo le mie…, come le hai  chiamate? carabattole? Sì, carabattole. E me ne vado. Non c’ è bisogno che tu dica altro, che tu faccia altro. Vado via. Va bene così? Ti lascio casa libera e vorrei fare terra bruciata dietro di me. Perché  questo è il disastro vero. Che anche quando sarò lontana, tu sarai con me. Tu, la tua presenza soffocante, il tuo amore, se amore è stato tutto questo.

Questo volermi tenere imbavagliata, legata alle tue aspettative, questo volere che io viva la tua vita senza nessun rispetto per la mia.

Perché anch’ io ho una mia idea di vita, sai?

E se le mie idee non corrispondono alle tue, non credo tu abbia il diritto di calpestarle.

Lo so. Lo so. Il dovere.

Ho il dovere di conformarmi. Lo hai sempre detto. Lo hai strillato da sempre.

No.

Ecco. Adesso  te lo dico chiaro e tondo. Io non sto più a questo gioco.

Che cosa?  Che cosa dici? Tu ti sei conformata sempre?

Mi spiace per te. Hai mai pensato d’ aver sbagliato?

No? Sicura? Sei sicura? Pensaci.

Non sbagliavi anche quando, così scontenta, ti rinchiudevi a riccio intorno alle tue convinzioni, nell’ alone giallognolo dell’ insoddisfazione, del timore del mondo reale, tutta tesa a dar corpo a infinite malinconie?  A trasmettere infinite malinconie.

Guarda fuori: piove. E’ una giornata d’ autunno, è giusto che piova. Ma tu solo questo vedi, che piove. Non vedi i colori che son tutti una fiamma e ti aspetti che anch’ io veda sola l’ acqua che bagna il grigio.

Sai quante volte avrei voluto uscire con tuta e scarpe da ginnastica e il cappuccio ben stretto intorno al capo e allacciato intorno alla gola per andarmene sotto gli alberi con tutte le loro foglie dorate, giallo oro, rossastre, attaccate ancora con un filo di vita al ramo, così tremule e tenaci e camminare lontano dalle luci dei viali, lontano dalle vetrine dei negozi, e comprare al forno che sta là in fondo, verso la Madonnina, un pezzo di crescenta, magari una piadina, e mangiarla calda mentre mi pioveva addosso?

Il raffreddore, dici? Mi sarei presa il raffreddore. Forse. Può anche darsi di no.

Ecco, vedi: non posso più continuare ad aspettare la tegola che tu da sempre dici mi cadrà sulla testa. Se non farò la brava bambina coscienzosa. Ho camminato troppo a lungo a testa bassa, incassata fra le spalle, magre, sì lo so, ho le spalle magre, c’ è di peggio, e adesso non intendo continuare più.

No, non dire altro. Perché delle cose che forse non capisci, che di certo non condividi, sai vedere solo il lato negativo. Non ne hai il diritto, di spaventarmi. Di frastornarmi con quello che capiterà, potrebbe capitare, non si sa se capiterà, ma comunque bisogna comportarsi come si fosse sicuri che capiterà.

Che la maledetta tegola cadrà. Alla fine cadrà e mi centrerà in testa. Se non farò come dici tu. Se non sarò come sei tu.

Credimi, non posso continuare.

Non è una ribellione. Non temere. Non mi rivolto contro di te. Tu hai creduto di far bene. Ne sono certa. Ma mi hai distrutta. Quasi.

Io voglio uscire di qui con le mie carabattole e andare via, sì, lo so, là dove vado, non sarà tutto tranquillo.

Il pericolo? Forse.

La guerra? Forse.

Ma io devo andare e devo farlo adesso. No, non rimando. Non ho bisogno di pensarci ancora un po’ su. Laggiù la gente crepa ogni minuto. E io non posso perdere neanche un altro minuto.

Tu? Ah. Attenta. La stai mettendo sul ricatto. La stai mettendo ancora sul dovere. Il mio dovere verso di te. Ma tu non sei l’ ombelico del mondo.

Guarda, ti voglio bene, ma tu non sei l’ ombelico del mondo.

Con quello che hai fatto per me? Sono un’ ingrata?

Ecco, sì: dal tuo punto di vista. Senz’ altro sì. Ma è solo che nei miei panni, tu non vuoi metterti. So che è difficile. Per te è impossibile.

Io sono diversa da te. Accettalo. E’ un dato di fatto. Io devo sentirmi utile. Capisci? Utile. Concretamente.

Per questo vado. Non per ripicca. Non perché non ti voglia bene.

Ti sono grata per avermi permesso di nascere.

Ti chiedo solo di permettermi di vivere. A modo mio. Come mi sento di fare. Di lottare per quello in cui credo.E io credo in questa mia volontà di lasciare quello a cui tu hai sempre guardato come un modo sicuro di passare il tempo e di rischiare, sì, di rischiare questa tranquillità senza scosse per qualcosa che sento come meraviglioso. Aiutare a costruire, magari da zero, una possibilità di futuro laggiù, dove nessuno ha niente.

Il tuo dolore? No. Non parlare del tuo dolore. Della tua paura. Non soffocare questa cosa che mi spinge a partire, per andare a guardare fisso negli occhi la la miseria e la desolazione.

Hai voluto che facessi la volontaria per te, a tutto servizio, figlia e dama di compagnia. Sempre corretta, carina, disponibile, senza volontà propria. Lo sono stata tutto questo tempo. Ma adesso io vado.  Sento che è giusto così. Per me. Vedi, non puoi costruire cancelli alti abbastanza per fermarmi. Il mio sogno è sempre stato questo.

Ecco. Sono pronta. Le mie carabattole sono tutte qui. Ho addosso i jeans. Ho in mano la mia sacca. E’ la mia divisa.

Come? Ah, ecco. Ma so anche questo. Non sono più giovane. Già.

Ho passato tanto di quel tempo qui con te, a cercare di adeguarmi al tuo stile di vita. Ci ho messo tanto di quel tempo a capire che non era giusto quello che mi stavi facendo.

Che non era giusto quello che mi stavo facendo.

Ma io adesso ho capito e me ne vado. D’ altra parte tu non puoi più fare niente per fermarmi.

Non puoi più piangere.

Strillare.

Farmi sentire in colpa.

Alla fin fine, ho fatto sempre quello che ti aspettavi facessi. Io sono a posto con me stessa. So d’ essere stata ricattata per tutto questo tempo. So di non avere avuto la forza di ribellarmi. Avrei dovuto. Trovarla, questa forza. Ma tant’ è. E’ andata così.

Adesso ti guardo in questa foto. Sei in posa. Elegante. Una signora. Lo sei sempre stata.

Lo eri anche nella bara, con il tuo bell’ abito di seta. Una signora.

Lo capisci adesso, là dove ti trovi, che mi devi lasciare andare? Che devi smetterla di sussurrarmi all’ orecchio le solite frasi, ormai vecchie e stantie?

Chi porterà fiori sulla tua tomba? ancora chiedi.

Smettila. Non ti sento.

Ecco, apro la porta, finalmente, sì lascio la tua foto qui, sulla consolle. Sì, chiudo bene la porta. Non ti preoccupare. I ladri non entreranno. D’ altra parte qui troverebbero solo, di prezioso, l’ odore dei miei anni spesi a modo tuo. Della mia giovinezza andata. Depredata? Il resto sono solo argenti e quadri e porcellane e mobili antichi. Che non contano. Hanno mai contato? Comunque io non starò qui, fedele e devota, a far la guardia al tuo mondo. Il tuo mondo. Non il mio.

L’ ascensore scende.

Consegno le chiavi al portiere.

Un attimo. E sono fuori. Sotto la pioggia.



 
Sabbia nera

Lo accompagnavano sulla spiaggia tutte le mattine tre bambini fra gli otto e gli undici anni. Due maschi ed una femmina, dai volti abbronzati e gli occhi scuri. La femmina lo teneva per mano, i due maschietti andavano avanti, precedendoli fino ad una specie di capanno che poi capanno non era, ma solo una tenda scolorita e sdrucita sorretta da due pali e fissata nella parte posteriore ad una cintura di canne bionde. I bambini vi arrivavano per primi e davano un' occhiata al posto, come a guardare che tutto fosse in ordine, poi uno sgusciava fra le pieghe dello straccio che la brezza animava gonfiandone ora un lembo ora un altro, ne riemergeva portando una sedia pieghevole, apriva la sedia proprio davanti al riparo, aspettava che lui arrivasse tenuto per mano dalla bambina. Lo facevano sedere. Un' ultima occhiata in giro e se ne andavano.

Il vecchio restava seduto al riparo della tenda, in vista delle onde e delle palme, per ore. Non faceva niente. Un volto segnato dagli anni, dalla fatica, dal sale dell' oceano. Mani grandi, venate di blu, deformate dall' età, artigli parevano, posate sulle cosce magre. Occhi scurissimi brillavano fra le rughe profonde incise nel volto. Non faceva niente. C' erano vecchi che intrecciavano giunchi, riparavano reti, parlavano fra loro, in quell' angolo di spiaggia subito dietro il bastione del vecchio fortino spagnolo, prima dei grandi blocchi che delimitavano il porto. Il vecchio stava solo, sulla sua sedia, il capo che si reclinava sempre più man mano che le ore trascorrevano e lui, dondolandolo , ma solo un poco, cantilenava quello che pareva un canto antico.

Suoni e parole sussurrate, smozzicate, nella brezza dell' oceano, fra i fremiti delle foglie di palma, davanti alle onde che luccicavano al sole come fatte di scaglie d' oro e d' argento - così eran fatte le corazze degli eroi, quelli del passato - e ai suoi piedi la sabbia, nera, lavica, che contrastava con il colore del cielo e dell' acqua e pareva dal contrasto trarre forza.

IO SONO QUI. La terra degli uomini di mare.

E davanti, l' oceano mutevole, cangiante nei colori, che é così ed ecco non lo é più, terra di mare, di leggende, di sogni e d' amori, di tesori e di morte.

ANCH' IO SONO QUI. Il mare impregna la terra. La bacia e si ritrae. Chiama. Cantilenava il vecchio la sua canzone. A nessuno e a tutti. A quelli che ascoltavano e a quelli che passavano e ammiccavano. Ai vivi e ai morti. A se stesso. Al presente e al passato. Forse al futuro.

Avvicinarmi a lui e accoccolarmi lì vicino non mi costò nessun sforzo. Mi venne spontaneo. Poiché c' era un mondo intero in quei suoni e in quelle parole. E, si sa, non ci si può permettere il lusso di lasciar perdere un mondo nuovo da conoscere. C' è sempre da imparare.

" Domani, domani vedrai, era ieri, un giorno fa....dolce nell' acqua il pesce guizza e la rete si tende e l' onda porta lontano. Viaggi fra creste di spuma, la vela lacerata, il fulmine squarcia livido il cielo, acqua salata, la barca fra le onde, conchiglie sulla riva ad asciugarsi al sole...partenze, ritorni....figli del mare....aspetta ....il mare....che non dimentica un volto, ricorda tutti i sorrisi e le ombre e le speranze accoglie...Credi. Nel mare. Porta lontano. Il mare. Onda su onda. Onde. "

Mi fissa. Occhi lucidi di vita. Dondola il capo, piano. Le mani artigliano le cosce magre. La cantilena diviene un discorso ritmato sul batter dell' onda sulla riva:

" Di tutto raccoglie il mare. Acqua. Credi che sia solo acqua. Salata. Credi che sia il mondo dei pesci, dei grandi e dei piccoli. Ci vivi sul mare. Ci passi la vita. E lui ti culla e ti strapazza, ti sussurra e ti urla all' orecchio. Gli chiedi: Chi sei? Dunque, chi sei? Attento, chiediglielo con gentilezza. Se vuoi una risposta. Che poi magari ti risponde solo dopo anni, ma non importa. Tu chiediglielo con gentilezza. Prima o poi risponde. Ti prende a schiaffi, innalza muri d' acqua tenebrosi, ti sprofonda giù giù nel suo ventre e ti solleva in alto incontro al sole. Così è fatto il mare. Mai fermo, anche quando la sua voce si fa sottile sottile tanto che ti ci addormenti il cuore in quella voce, neanche allora è fermo. Non può star fermo. Troppe cose ha dentro di sé.

Ti fa trovare nella rete un coccio che non si sa da dove venga, da che tempo venga, una conchiglia enorme come non se ne è mai viste, poi un giorno capisci, perché è lui che risponde, che hai passato la vita a navigare dentro uno scrigno fatto di ricordi...ricordi tenuti stretti nella sabbia dei fondali, rivestiti dallo smalto dei coralli, ossa di amici, lance di nemici, ancore che non sono più risalite in alto....spazio e tempo si danno la mano nelle onde, ballano sui giorni che vanno a perdersi fra albe e tramonti, sole che sorge e luna che sale e sole e luna specchiano i loro visi nel mare e il mare conserva il calore del sole, la luce della luna e se ne impreziosisce...

Caddero dall' alto della rupe e il mare li accolse e nessuno li divise. Due amori che correvano inseguiti, perché una figlia di principe non poteva amare un cavaliere... Non li presero. Si fermarono lui e lei sull' orlo della rupe e si baciarono con gli occhi, bada, solo con gli occhi e non importa come si chiamassero. Si baciarono con gli occhi e si lanciarono giù dalla rupe nel mare. Il mare conserva il loro amore, raccontano le conchiglie la loro storia... t' amo... anch' io t' amo e nessuno li può dimenticare. E i pesci nel profondo salgono verso l' alto, la luce a fior d' acqua smuovono, onda su onda.

La voce del mare narra storie.... e tu sei lì in mezzo a quell' acqua chiara e senti e ascolti e poi... non dimentichi più e il mare ti lascia i suoi ricordi e tu torni a riva e racconti a quanti ascoltano e poi racconti solo a te, se nessuno t' ascolta più.

I tesori del mare. Tanti. Ma questo è il più grande. Il mare conserva le orme lasciate da quelli che son passati su rotte lontane e ogni tanto qualcosa restituisce,...si è soli sul mare, non fosse per la sua voce e le sue storie. Conservare, a volte restituire. Il vento cancella le orme lasciate su strade polverose...il mare conserva i suoi tesori e sono memorie antiche...A volte le restituisce. Perché si sappia che lui non dimentica, mai. Niente. Nessuno. Lui c' è fin dall' inizio, c' era solo lui. Ha visto e sentito tutto... Il mare ha occhi grandi sempre spalancati che tutto vedono e le ombre accolgono.

Anche quando gli uomini si sono ammazzati e l' acqua era rossa attorno alla barcaccia e loro si scannavano come indemoniati finché ne rimase uno, il mozzo, che fu ripescato da quelli della Tina e mai disse perché era accaduto quello che era accaduto. Il mare li sentì parlare, gridare, sentì l' arpione che si conficcò nel cuore del primo, il colpo che prese alla testa il secondo, lo scatto della lama che s' affondò nel petto del terzo e poi lavò le lacrime del quarto e alzò un ' onda gigantesca che strappò sartie, divelse l' albero, spazzò il ponte, ghermì l' ultimo degli uomini e tutti li portò a dormire fra i rami fioriti delle alghe. Tranne il mozzo: lui lo trasportò a una tavola e lo sospinse in là... lontano.

Sa di guerre, d' amore, di odio e di lacrime. Di violenza e forza e coraggio: l' odore del mare. Inebria. Incanta. Dal passato fluisce nell' oggi e poi... ancora... avanti verso il domani. Nulla va perduto.

Un giovane partì per tentar fortuna ed aveva solo la sua barca che era stata di suo padre e speranze gli gonfiavano il petto. Cercava fortuna. Lontano dall' isola dalla sabbia nera dove era nato. Cavalcò le onde fino al continente dove la gente parla in modo strano e sempre corre per strade fatte di polvere.

Il mare ve lo portò con venti favorevoli, fu buono e gentile con lui. Arrivò. Lavorò. Guadagnò. Divenne ricco. E potente. Dimenticò il mare. Ma il mare non si scordò di lui. Lo chiamava ogni notte da sotto i pontili allungati sui moli di cui il giovane era divenuto padrone...Ritorna, diceva, ritorna. Perché il mare ha memoria eterna. Come se fosse un figlio perduto, lo chiamava. Memoria eterna ha il mare che tutto riceve e tutto conserva. Io non volevo tornare. Ero ricco. Potente. Ma mia madre stava morendo, mi mandarono a dire. Tornai. Su un battello bianco e rosso che era una meraviglia. Perché ero ricco. Il mare sorrise frusciando contro lo scafo e colorando d' oro i fianchi della barca. Io fumavo e pensavo a quando ero partito da casa, così giovane e solo. Il mare mi accompagnò all' isola e mi lasciò sulla riva, le onde si accartocciarono intorno ai miei piedi come per trattenermi. Mia madre intanto era morta. Girai di nuovo le spalle all' isola, la terra aspettava lontano, poi lei, che avevo amato da ragazzo, mi fu davanti e fu come una magia di luci e di ombre e di calore e di freddo e il sangue corse rapido per le vene e io pensai che l' avrei portata via con me, quando ci fu il boato e il vulcano spruzzò nel cielo vampate di fuoco. Corremmo al battello. Molti ne portai con me al largo. Il mare impazziva intorno all' isola e gridava. Poi tutto finì, tornammo a riva e fra la rovina la voce del mare ricominciò a cantare. Della vita dell' amore della morte...

Non tornai più sul continente. Perché il mare non dimentica. Mi aveva chiamato indietro perché io mi ero scordato dell' amore che mi ero lasciato alle spalle, di me stesso. Glielo avevo narrato durante le notti trascorse a pescare, di lei, di quanto eravamo giovani e poveri... lui se l' era tenuto ben fisso in mente, io no. Rimasi. Mare della mia vita. "

A me, accoccolato sui talloni sotto il sole, con negli occhi le frange delle foglie di palma, si apre dinanzi una breccia aperta sull' infinito attraverso la quale passato presente e futuro confluiscono in linee convergenti come radici di alberi secolari che nella terra sprofondano e s' allungano e dal tronco si allontanano, riemergono a fior di terra e al tronco linfa convogliano attimo dopo attimo. Uno spazio aperto nel mare immenso che preserva, accoglie e inanella di bagliori le spoglie dei sogni, i ricordi stessi dei giorni e non esiste ieri, ma solo quest' oggi che con l' ieri è tutt' uno e diviene domani.

Mare che risuona di parole e sospiri, le mie parole, i miei sospiri, occhi aperti a cercare quel perché che non trovo da nessuna parte, che, se appena mi pare di scorgerlo, mi sfugge e la ricerca riprende.

Forse fra le onde non troverò risposta,

ma pace

e il ricordo di lei fra i ricordi di tanti respireranno echi di vita

e lei ancora sarà con me,

- i nostri attimi durati una vita,

perduti nel fango d' una luce ingannevole, d' un suono stridulo, fragore e schianto, rottami contorti -

lei ancora sorriderà e tenderà la mano: sono qui.

Mi fissa il vecchio, viso grinzoso, e dondola il capo sì sì sì, è così.

Mi alzo, annuisco e mi allontano a passi lenti sulla sabbia nera di quest' isola nata dal fondo dell' oceano, che ti riempie di voce potente, frangente dopo frangente e se cammini proprio sulla battigia dove le onde si sfanno, non importa se piangi, tanto gli spruzzi ti lavano il viso e nessuno se ne accorge. Solo il mare lo sa.

*

Presi l' abitudine d' andare sulla spiaggia di sabbia nera e, giorno dopo giorno, aspettavo che lui arrivasse, ascoltavo i brandelli di frasi che gli uscivano dalle labbra, insieme guardavamo la linea lontana dell' orizzonte dove cielo ed acqua s' incontrano, sfumando l' uno nell' altra.

Un giorno il vecchio non venne, i ragazzini non si videro. In paese si parlava solo del fatto che nella notte era morto, quasi centenario, colui che per tutti era il padrone dell' isola.

Il padrone dell' isola. Di ogni locale, di ogni casa, forse di ogni granello di sabbia nera. Lui.

Allora sono tornato pian piano alla spiaggia, ho camminato sulla battigia, mi sono chinato a raccogliere un sassetto levigato, verde, l' ho stretto nel pugno, mi ha ferito il palmo, l' ho stretto con più forza, poi mi sono fermato e l' ho guardato nel profondo, quel mare d' acque salate che sanno degli uomini quando ancor di vita non ce n' era al mondo aperto in spazi infiniti, l' ho fissato e con gentilezza, badate, con gentilezza, gli ho chiesto: " Perché lei è morta, lei, non io? ", e ho lasciato cadere nell' onda il sassetto, con dolcezza.

In dono. Perché non dimenticasse la mia domanda.








Astra

Oltre la scogliera, l'occhio vagava fra le onde rivestite di scaglie argentee spezzate solo dal tranquillo avanzare del ferry.
Astra fissava l'oceano con sguardo opaco, in apparenza rilassata, in realtà stanca dei tanti pensieri che le premevano il cuore, le piegavano lo spirito.
«Se domani ci sarà sole, andrò alla spiaggia» disse a voce alta, parlando, lo sapeva, a se stessa.
«Bene» rispose lui, ma lei riconobbe il tono noncurante e le si strinse il cuore.
Era come se non l'avesse neppure sentita. Avrebbe risposto «Bene» a qualunque cosa gli avesse detto, perché lui non l'ascoltava più.
Quel «Bene» la stava uccidendo. E, se in passato, l'aveva accettato come un segno della stanchezza di cui il loro rapporto, nel passare degli anni, s'era andato rivestendo, ormai le era divenuto intollerabile, poiché aveva compreso che era qualcosa di più: era il segnale che l'amore che li aveva legati, amore rosso come il tramonto del sole che sprofonda nel blu, verde come la cascata di foglie dei rampicanti sulla veranda, amore di corallo e madreperla, era finito.
La passione se n'era andata per prima, ma non le era importato più di tanto: si può vivere senza passione. Ma l'amore no, all'amore ci teneva, lo voleva sentire, lo voleva toccare, lo voleva vedere muoversi per le stanze, intorno a lei, intorno a lui, come la magia di un alone iridescente dal sapore dell'arcobaleno.
Non si vive senza amore, solo l'amore rende vivibile il quotidiano, trasformando la noia, il ripetitivo in un'armonica sequenza di gesti e suoni.
La giovinezza era andata ormai per la sua strada, lasciandoli così, loro due, a terminar la tela intessuta, con dita veloci, dal destino. Lui aveva continuato a dipingere e lei aveva continuato ad amarlo.
Lui dipingeva paesaggi chiari, pieni di luce e di freschi colori e anche se non erano capolavori ad Astra piacevano, poiché erano lo specchio della visione solare che lui aveva del mondo in cui vivevano.
Dipingeva solo paesaggi: angoli di paese con case bianche dai balconi drappeggiati da cascate di geranio rosa, vedute dell'eremo incorniciato dal grande arco in pietra fra il verde delle palme.
Non c'erano esseri umani a turbare la sua visione, non uomini, non donne, non un bambino né un cane, solo muri e fiori e onde e scogli. Il suo occhio aveva scelto ciò che il suo cuore sentiva più vicino: lo spirito delle cose e l'opera continua del rinnovarsi della natura, così ogni giorno, per vent'anni, come se considerasse l'essere umano un elemento atto, non ad accrescere, ma a turbare l'equilibrio interiore che egli cercava, l'armonia che voleva far vivere sulle sue tele e che non trovava, Astra lo sapeva bene, dentro di sé.
Astra lo aveva compreso, lei che era stata una ragazza dolce e fragrante e dolce era rimasta invecchiando, anche se una punta d'asprezza s'era incuneato nello sguardo azzurro cupo come l'oceano della notte. Gli si era posata accanto, il capo sul cuscino, per vent'anni.
Ora si sentiva messa da parte come una veste smessa che non riscuote più interesse, prima o poi verrà presa e piegata, con cura magari, per venir riposta nel baule in soffitta, nella soffitta del passato, fra le palline di naftalina. Non voleva, né poteva accettarlo. Tutto in lei si ribellava all'essere accantonata, avrebbe preferito venir lasciata: «Non ti voglio più. Voglio starmene solo». Ma lui non parlava. Non glielo avrebbe mai detto forse per pigrizia, forse per senso di dovere, forse per semplice abitudine a vederla là, come la pipa sul posacenere giallo.
Astra non pensava d'aver sprecato la vita: era stato bello, quasi meraviglioso quel suo vivergli accanto, lui con i suoi quadri, lei a pizzicar le corde della chitarra nei lunghi tramonti quando il sole sembrava non voler mai andar giù dietro la linea dell'orizzonte e rimaneva sospeso fra la garza delle nuvole a fiocco e il profumo dei gerani si mischiava al colore dell'ibisco fiammeggiante.
Non rimpiangeva niente. Se si volgeva indietro, girando il capo elegante e zingaresco insieme, sopra la spalla, poteva vederlo anche adesso al lavoro, sulla grande terrazza piastrellata, il cappellaccio di tela bianca in testa, un vecchio ormai, sì, ma che grande vecchio! Ma non l'ascoltava più, non la sentiva più, non la vedeva neppure.
Era stata bella Astra, ma il tempo era passato anche per lei ed ora le sue belle mani dalle lunghe dita affusolate, si erano allargate e ingrossate e così le caviglie una volta sottili e il viso portava incisi i segni profondi lasciati da una vita passata a sognare intensamente. Anche i sogni possono distruggere.
Era dunque tempo di andarsene, di lasciarlo questo suo sogno finito, di offrire a lui la possibilità di starsene nell'angolo in cui aveva scelto di vivere e in cui non c'era più posto per lei, di lei che non voleva essere umiliata, di lei che si sentiva in colpa per quel suo non esser più giovane e bella.
Se ne sarebbe andata, dunque. Si scosse. passò le mani sulla veste lisciandone le pieghe, come pensierosa. Dentro qualcosa si era inceppato e le doleva il petto.
Si mosse, allontanandosi dalla terrazza e lasciandolo assorto davanti alla tela. Pensò che avrebbe dovuto mettere insieme le sue cose che erano davvero poche: non aveva mai amato possedere cose. La gonna lunga frusciava lungo il corridoio mentre la mano faceva scorrere lo sportello bianco dell'armadio a muro. Si chinò e prese il paio di sandali di cuoio... No, meglio salire prima nel soppalco e prendere una scatola, una borsa, qualcosa dove riporre le sue carabattole.
Astra salì lentamente i gradini della scaletta stretta e fu su, nella stanza sotto il tetto con il grande lucernario che filtrava la luce del sole e che lui aveva preso l'abitudine di usare come studio negli ultimi mesi, spesso, sempre più spesso, allontanandosi da lei, rinchiudendosi in un mondo al quale non le era permesso accedere. Quando diceva: «Salgo», Astra sapeva che voleva starsene solo e chiudeva la porta in faccia al colore del loro vivere insieme. «Salgo», e lei rimaneva nella solitudine selvaggia del cuore invecchiato. Non aveva mai dato da capire quanto la cosa l'avvilisse, la rattristasse: in ultima analisi, non è forse diritto di tutti scegliere e magari sbagliare? E adesso lei non aveva forse scelto di andarsene?
Era rosa la luce nella stanza sotto il tetto, a quell'ora pomeridiana e di rosa tingeva le pareti bianche. C'erano casse appoggiate in un angolo, ordinatamente impilate e c'era il cavalletto ricoperto da un panno a proteggere la tela che vi era posata sopra. E c'erano altre tele appoggiate ai muri, con il dorso rivolto verso l'esterno così che il dipinto non si vedeva.
Astra rimase immobile nel centro della stanza e risentì le loro risate e sentì le carezze e udì parole lontane, suoni lontani come creste di onde sussurranti contro la scogliera sul far della sera: era stato un miracolo quel loro esistere insieme.
Scosse il capo ed una lunga ciocca grigia si sciolse dalla treccia biondo cenere e le sfiorò la guancia appesantita. Si avvicinò al cavalletto e lentamente sollevò il panno, poco per volta, con gentilezza, poiché ben sapeva di star violando l'animo di lui.
Il quadro non rappresentava un paesaggio. Astra guardava Astra dalla tela, nell'atto di porre un mazzo di fiori azzurrini, nel vaso dalla trasparenza acquea, appoggiato sul tavolino di giunco nel soggiorno, proprio come aveva fatto solo la settimana prima, lo ricordava bene e bene ricordava quei fiori che aveva comprato al mercato delle piante perché le era piaciuto il loro colore, tenero e forte insieme. Nel quadro Astra teneva fra le dita affusolate il fascio di fiori, ma gli occhi erano acquemarine, limpidi come le pozze che l'oceano lascia fra gli scogli durante la bassa marea e il viso aveva l'ovale perfetto della giovane che era stata: l'aveva dipinta così, splendente, fulgida e immutata. Un'ombra era alle spalle della giovane, un'ombra pallida, indistinta nei lineamenti, ricurva come una vela ripiegata dopo tanto vento, un'ombra che s'allungava fino a divenire una mano grinzosa a posarsi sulla spalla della fanciulla nel dipinto: la mano di lui. E della vita. E della morte.
Astra si volse alle tele addossate alla parete, le girò, le guardò e Astra e sempre Astra le apparve davanti: Astra giovane, sorridente, serena, Astra felice, immersa nel sole, sfolgorante di passione.
Seppe così che a lui le parole si erano seccate in gola, che i gesti gli si erano congelati nell'immobilità di ossa frantumate, ma che la ricordava, no, lui la vedeva ancora come era stata, il tempo non era passato nel suo cuore, per lui non era cambiata, nulla era cambiato di quello che c'era stato fra di loro. L'aveva avvolta dentro di sé, parte di sé e su, nel soppalco sotto il tetto, cantava da solo il suo amore per lei, era tutto quello che aveva da darle, tutto quello che aveva da dirle, tutto in quelle tele tenute celate per riscaldargli il cuore nel gelo della vecchiaia e della paura. E il cuore di Astra danzò e le sue mani accarezzarono l'ombra alle sue spalle e guardò la galleria di colori che ripetevano il suo viso e il suo corpo.
«Sì, è questo, &endash; si disse &endash; questo è il nostro segreto». Ricoprì la tela sul cavalletto, rimise con cura a posto le altre contro la parete e lasciò la stanza, leggera come una farfalla che nessuno saprà mai che è entrata nella veranda, ha palpitato intorno alle cose e se ne è rivolata via, e nel petto il cuore le batteva piano come se cercasse di trattenere le lacrime dolci che sanno di sale e svaporano fuori dalla finestra aperta sul cortile dove le ombre si allungano e con dita leggere dipingono ragnatele di sentieri, pensieri e sogni che la notte poi culla: Astra riconobbe il profumo della felicità e se ne lasciò avvolgere, la indossò con orgoglio, come una regina indossa una veste intessuta di fili d'oro.







UN'OCCASIONE SPECIALE

Sabato pomeriggio. Primavera. L' aria è tiepida. Il sole già caldo.
Me ne sto fuori casa, nel quadrato di terra sul retro della villetta a schiera dove abito da quando io e Laura ci siamo sposati, saranno un nove anni, dandomi da fare con la falciatrice. Mi aspetta un monte di lavoro da fare. O almeno credo. Non che mi dispiaccia. Però pensavo a quanti fine settimana sacrificati ci vorranno a fare il lifting post invernale a quello sputo di verde. Risistemare tutto come piace a me, e a me piacciono le cose fatte con cura, proprio bene, se no non c' è senso a farle, le cose.Tutto per potere alla fine sistemare tavolino, sedie e amaca in una cornice linda, ordinata, con il prato che doveva apparire come spazzolato, con i fiorinei vasi collocati con simmetria e la piccola aiuola a forma di O perfettamente delineata. Mi innervosisco al pensiero. Niente gite in bici per, diciamo, tre fine settimana. Chiuso in quei 70 metri e la schiena è già indolenzita. Si deve fare. Perciò l' avrei fatto. So che per i mesi a venire avrei continuato a controllare che tutto fosse a posto. Avrei corretto eventuali sbavature, sforbiciato, potato, concimato. Non un hobby, ma una specie di condanna. O semplicemente una mania. Ognuno ha le sue, d' altra parte.
C' è di peggio comunque. E devo mettere in conto anche la soddisfazione che avrei provato a lavoro finito.Mi do dunque da fare. Me ne sto a falciare, quando mia moglie esce di casa, mi si avvicina. Spengo la falciatrice. Lei mi dice: " Ha telefonato Enzo."
Enzo. Vecchio amico, ex compagno di scuola, rimasto vedevo un due mesi prima. Al funerale, quasi non l' avevo riconosciuto, stravolto dal dolore com' era. Povero Enzo.
" E…?" chiedo a mia moglie. Ha da sempre la caratteristica di far cadere una, due parole e poi azzittirsi. Come in attesa dello stimolo a concludere il discorso con qualcosa di sensato.
" Ha chiesto se domani siamo a casa. "
" E….?"
" Gli ho detto di sì. "
Non dico "E…?"
Lei aggiunge ugualmente: " Ci viene a trovare. A pranzo."
Perfetto. Enzo viene a trovarci. Domenica. E si porta appresso tutto il bagaglio del suo dolore, della sua solitudine, della sua paura,. Quel che ci vuole a inizio primavera. Le rondini tornano al nido appeso alla grondaia.
Sia chiaro. Mi era dispiaciuto per lui. Sapevo che era molto legato alla moglie. Sapevo che non avevano figli. Mi rendo conto che deve essere per lui un gran brutto momento. Ma è la vita che va così. Io non c' entro. Non ne sono responsabile. Diciamo la verità, nel tempo, i legami s' erano allentati fra noi, lavori diversi, interessi diversi, posizioni diverse. Più che altro erano rimaste amiche le mogli. Si vedevano, andavano a far spese insieme, si telefonavano, robe da donne. Ma io potevo stare lunghi periodi, senza neanche sentirlo, Enzo. Quasi da dimenticarmi che esistesse. E sarebbe venuto a casa mia l' indomani.
L' idea mi infastidisce. Avrei dovuto assumere un' espressione dolente? Fare un viso da circostanza? Fare finta di niente e parlare del più e del meno? Di sport? Di politica? Che cosa può fregargli a uno con un peso così da portare, dello sport e della politica? Che poi sono sempre la stessa menata.
" Devo andare a fare un po' di spesa." Dice mia moglie. " Prendo la macchina."
Se ne rientra in casa.
" Dici che faccio un arrosto domani?" è di nuovo sulla soglia.
" Sì. Perché no?"
" Non so. Potrei preparare gli involtini. Marta diceva che gli piacevano."
E allora, no. Niente involtini. Ci manca solo che gli metti sotto il naso il piatto preferito, magari proprio come glielo faceva la moglie.
" Niente involtini."
" Arrosto?"
" Arrosto."
" Con le patate?"
" Con le patate."
Se ne va. Sento il motore dell' auto. Sento che si allontana. Riaccendo la falciatrice. Accidenti anche al povero Enzo. Devo andare al consorzio. Mi occorrono dei vasi e della terra. Voglio anche qualche pianta di gerani. Rossi. Mi infastidisce pensare a come sarà domani. Mi vergogno un po' di sentirmi così maldisposto. Insensibile? Egoista? Ma no. Sono solo un uno come tanti: casa, lavoro, rogne fisse e rogne saltuarie, deluso un giorno sì e l' altro pure, ansioso, puntiglioso, perfettino nelle mie cose, a proposito come faccio a andare al consorzio che la macchina l' ha presa lei? La macchina da strapazzo, da spesa, da carico e scarico. Non posso certo andare a impilare sacchi di terra nel baule dell' auto grande, quella "buona". Porca miseria. Dovrò aspettare che ritorni, lei con l' arrosto e le patate e tutto quanto il pranzo per il povero Enzo.

Domenica, sono le 12, 30 quando Enzo parcheggia la sua Fiat davanti al cancello di casa. Lo vedo dalla finestra della saletta. Parcheggiare con cura, spegnere il motore, cincischiare brevemente in zona cruscotto, scendere dall' auto, darsi una lisciata ai risvolti della giacca, ma perché diavolo s' è messo in completo blu, con tanto di cravatta e trench sul braccio? E' domenica, il giorno benedetto dei jeans e della maglia sportiva.Lo vedo aprire lo sportello posteriore, infilarvi il braccio e ritirarlo con nella mano un gran mazzo di fiori, l' omaggio per la padrona di casa. E' un po' più grigio, un po' più stempiato, ma il passo è sicuro, il piglio deciso. Cosa mi aspettavo? L' uomo che avevo visto al funerale, in peggio. Invece noto una certa ripresa. "Bene, mi dico. Sono contento per lui. Povero cristo."
Apro la porta, sorrido, gli tendo la mano, arriva mia moglie, si tuffa nel mazzo di fiori, ringrazia, non ti dovevi disturbare, lei, è stato un piacere, lui, a me scappa anche una pacca sulla spalla. La tavola è apparecchiata, Laura ha tirato fuori il servizio buono, quello con i decori blu, i bicchieri azzurri, le posate nuove, c' è profumo di arrosto nell' aria. Offro un aperitivo, un' acquetta leggera da supermercato, niente roba sofisticata. Laura tira fuori una coppetta di chips e una di olive. Beviamo, nessuno tocca le olive e le chips. Andiamo a tavola, parliamo divagando dalla politica, elezioni o non elezioni anticipate?, al buco dell' ozono, ambientalisti sì, ambientalisti no. Le parole corrono veloci, i sorrisi si sprecano, il tono è leggero. Non ci sono i sospiri che temevo. Gli occhi bassi. Luccicanti. I ricordi. No. I ricordi no. Il cielo ci scampi dai ricordi. Alla frutta mi capita così, per caso, di pensare alla scuola, io e Enzo quando si andava a scuola, alle pirlate che facevamo, a dire la verità le pirlate le facevo io, lui mi veniva dietro da quel buon gregario che era. Non aveva iniziativa, questo era il suo difetto. Comunque si era amici. Scuoto la testa e, quando me ne accorgo, mi do del cretino. Offro da bere. No, grazie. Davvero. Senza complimenti. Arriva il caffè. Lo beviamo seduti nell' angolo salotto. Io in poltrona. Enzo e Laura sul divano. Noto solo in quel momento che Laura è particolarmente carina, tirata a lucido, vanità di donna! Lui è rilassato. Beviamo il caffè. In silenzio.Penso: "E adesso? Che facciamo? " Badassi a come mi sento, mi stenderei una mezz' ora. Magari con Laura. Hanno finito il caffè, appoggiano le tazzine sul tavolino basso, Laura si china a sistemare la sua, ha una bella scollatura, mia moglie. Do un' occhiata rapida e sbieca a Enzo, se mai mostra un barlume d' interesse per le tette di mia moglie. Non noto niente. Ha lo sguardo educatamente assente. Li sento parlare, io mi astengo dalla conversazione. Parlano della prossima estate.
" Ma sì, è sempre la solita storia. Con Marco (sono io, Marco) che ha le ferie in agosto e così si va via quando si muovono tutti. Proprio tutti." sottolinea Laura. "Si spende di più, si sta peggio. Ma non si può fare diversamente." Enzo annuisce.
Ma cosa vuoi mai che gliene importi? Dei tuoi, nostri problemi da vacanzieri di massa? E poi la conosco a memoria la litania del "perché non puoi prendere le ferie in luglio?" Perché non posso. Ecco perché. Perché l' ufficio chiude in agosto. Ecco perché. Quello che vorrei sapere invece è perché, stando così le cose, non ce ne rimaniamo a casa nostra. Invece ci imbranchiamo con gli altri milioni come noi e finiamo a sbranarci per il posto in aereo, per la sdraio al mare, per la fila dell' ombrellone, sempre troppo lontana dal mare. Potremmo stare a casa. In fin dei conti non abbiamo bambini piccoli cui fare cambiare aria, portandoli dall' inquinamento cittadino al sole a rischio di una qualunque spiaggia. Enzo comunque non ha progetti. Eh già. Lui e Marta andavano via giusto una settimana, dieci giorni al massimo, ogni anno un posto diverso, per svagarsi, per conoscere luoghi differenti, gente differente, costumi differenti. Ma adesso, così, da solo… Laura lo guarda comprensiva.
Una crocierina,? Gli suggerisce. Si conoscono tante persone a bordo, e poi c' è sempre qualche attività stimolante pensata dagli intrattenitori. Questo della crociera è un tarlo, un' idea fissa di Laura. Sono anni ormai che spacca con la crociera in Grecia, in Norvegia o in Egitto non importa: basta che crociera sia. Non mi ci vedo su una nave, barca, tinozza per giorni e giorni a farmi intrattenere con l' obbligo di dovermi divertire.
" Sì, una crociera. Ci dovrei pensare. Non è una cattiva idea. Magari una di quelle che ti portano in giro per il Mediterraneo… Sì. "
Ecco, Laura è raggiante. Ha trovato uno che condivide la sua idea. Si crea di colpo, quasi in modo istintivo, un clima di congiura fra i due e io, naturalmente, ne sono escluso. Laura si alza, va alla piccola scrivania, apre il cassetto centrale, ne estrae una manata di depliants. " Ecco, sono nuovi, di quest' anno. Ho fatto un salto in agenzia l' altro giorno. Così, sai, avevo due minuti liberi. Tanto per vedere, sentire i prezzi, le proposte…"
Mi guarda, di sfuggita. Le tirerei il collo. Lo sa bene come la penso, ma non demorde. Si mette d' impegno a illustrare le possibilità: nomi di luoghi, date, prezzi volano nell' aria, ognuno, a suo modo, prende vita e dà vita a un sogno. Mi pare. Quasi quasi quei due mi fanno tenerezza. Lei, con la sua voglia di andare e fingersi per una settimana una donna di mondo, lui con il suo bisogno di vivere ancora, nonostante tutto. Magari di prendersi una vacanza dal dolore, di staccare dal sentirsi solo. Tutti e due cercano una via di scampo. Io no. Non ce ne sono vie di scampo. Se ce ne sono non mi interessano. La vita ordinaria mi si addice, mi calza a pennello tutto il suo grigiume. Mi sento una nuvola nera che porta pioggia. Gonfia di aria. I due si sono fatti vicini sul divano, sfogliando gli opuscoli, immersi nei loro viaggi. Potrei accendere la televisione, non se ne accorgerebbero neanche. Mi trattiene l' impressione che così facendo, mi escluderei automaticamente da loro in modo totale. Non mi garba, e non so perché, l' intimità che si è creata fra di loro.So che sono sciocchezze, anche perché non sono geloso, mai stato geloso. Fisicamente. Ma qui, davanti a me, si sta mettendo in scena qualcosa di irritante e diverso: un' alleanza di gusti, una ricerca di solidarietà, una connivenza. Per niente gradevole. Mi stanno venendo i nervi. Adesso vado a zappare in giardino. Ma sì. Fruscio di carta patinata.
Laura dice: " Sarà meglio che sistemi un po'. Scusa." Si alza. Raccoglie tazzine, piattini, zuccheriera, va in cucina. Sculetta un po'? No, è solo un' impressione.
" Mah…" fa Enzo. Lo guardo, interrogativo.
" Vedi, Laura è davvero tanto carina e gentile a mostrarmi tutto questo…, " indica gli opuscoli con quanto contengono, " ma, sai, l' idea di andarci mi angoscia. Starei tutto il tempo a pensare a quanto a Marta sarebbe piaciuto questo o quello o se magari non le sarebbe piaciuto.Mi sentirei ancora più solo in mezzo a tutta la gente che ci va per divertirsi, giovani e non. Non so se mi spiego."
" Con il tempo…" incomincio a dire e mi sento incastrato in quello che avevo temuto sin dall' inizio, ricordi rimpianti lamentazioni.
" …. passerà?" conclude Enzo.
" Magari non passerà. Si attenuerà." dico io.
" Magari. Penso che sarà così. Diventerà un ricordo. Adesso è il presente. E' la vita di ogni giorno. E' sempre dentro di me. Con me." Ha gli occhi stretti a fessura.
Fa' che non pianga. Tento di dimostrarmi amichevole. " Ti capisco.", faccio.
" Non credo", dice lui, gentile ma categorico e ribadisce: " Non credo proprio. Ma non importa. Non ho la pretesa che gli altri si rendano conto davvero di quello che provo. Del come lo provo. Sai, dice, come cambiando discorso, l' altro giorno ho incominciato a mettere mano nei suoi cassetti, per sistemare le cose e alla fine non ho sistemato proprio niente perché non mi va di mettere via le sue cose, mi sembrerebbe come di sfrattarla da casa sua e tu lo sai a come ci teneva a casa sua, insomma l' altro giorno in un cassetto ho trovato una busta e dentro la busta c' erano un paio di mutandine e un reggiseno di quelli tutti di pizzo e mi sono ricordato di quando li aveva comprati e me li aveva mostrati e mi aveva detto strizzando l' occhio: li metto da parte, sono per un' occasione speciale. Non li ha mai indossati, Non c' è stata nessuna occasione speciale ed è stato senz' altro per colpa mia. Solo le è capitato questo, d' essere seduta a tavola con me, di dire mi sento male e due minuti dopo, due minuti, capisci, era finita. E non c' è stato verso di farla tornare indietro, dovunque sia andata. Capisci,"
Si è alzato dal divano e mi sta di fronte, in piedi, grigio, quasi vecchio, disperato.
Si sta chiedendo: "Perché?", e mi accorgo, stupefatto, che anch' io mi domando: "Perché?" lo sto letteralmente urlando dentro di me. Arrabbiato. Incazzato. Colpito. Perché? E non mi basta il son cose che capitano. Tutti i momenti. A migliaia di persone.
" Andiamo un po' fuori. " Laura s' è messa una giacchetta sulle spalle e ci indica la porta d' ingresso. E' seria. Dalla cucina arriva il ronzio della lavastoviglie. Usciamo nel giardinetto. Illustro a Enzo i lavori che devo fare. Lui dice che verrà una meraviglia. Parliamo del tempo. Alle 4 del pomeriggio Enzo se ne va. Lo salutiamo dal cancello, ciao, telefona, torna presto e cose simili.
" Devo portare fuori il pattume." Dice Laura.
" Faccio io."
" No. Devo finire di preparare il sacco."
Entra in casa. Quando ne esce ha il sacco azzurro profumo limone in mano. Glielo tolgo e vado al cassonetto in fondo alla fila di villette. Nella trasparenza azzurrina della plastica galleggiano pagine patinate di navi da crociera. Butto via tutto. Spazzatura e sogni. Laura è sparita all' interno. Sento chiudersi una persiana al piano superiore. Forse vuole riposare. Così non posso finire di falciare. Potrei svasare i gerani. A ben guardare potrei non fare un cazzo di niente. Anzi. Potrei incominciare a godermelo 'sto sputo di terra, invece che sentirmene schiavo. Vado in garage e ne riemergo con l' amaca. La sistemo. Mi ci stendo sopra. Vedo il cielo. Nuvole come soffi d' alito. A destra e a sinistra terra e erba fresca, nuova, appena nata, fra le primule rigorosamente rosa, è fiorito un piscialetto, ha un bellissimo colore giallo dorato.
Ragazzi, penso che lascerò che l' erba cresca bella alta e grassa, che i piscialetto fioriscano fra le rose rosa, perché mi accorgo che alla fin finenon mi importa poi molto che tutto sia spazzolato simmetrico e in tinta. Tanto non voglio finire su Case e Giardini.
Mi viene voglia di fischiare. Fischio. Voglio prendermi un cane, che quando fischio arrivi di corsa, festosobavoso scodinzolante. Se poi si scaverà la sua brava buca in un qualche angolo.



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9 Agosto 2006
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