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RACCONTI

Nonnovaldo




Giò è tornato

Questa mattina è tornato Giò. Non si vedeva da cinque anni, da quando colei che si era impossessata della sua anima l'aveva abbandonato.
Qualcuno potrebbe obiettare che forse Giò non ha un'anima. Vi assicuro che Giò un'anima ce l'ha, anche se ha lunghi baffi sottili e due occhi da gatto. In effetti Giò è un gatto.
Giò aveva adottato mia figlia, solo gli stolti pensano che avvenga il contrario, sono i gatti che adottano un essere umano. A quel tempo Giò era un micetto con un curioso ciuffo di peli bianchi sul dorso mentre altrove regnava il nero più nero che un gatto possa avere. Si presentò una mattina alla porta sul retro, quella che hanno molte case genovesi, secondo piano con giardino, dove la collina violentata riprende la sua verginità diventando uno spazio verde arrampicato sulla parte opposta alla facciata del palazzo.
Affamato ma dignitoso, Giò accettò con garbo un piattino di avanzi che mia figlia tirò fuori dal frigo ed intiepidì per lui. Poi gli diede anche una grattatina sulla testa. E fu amore a prima vista; da allora mia figlia fu l'umana di Giò. Lui veniva a trovarla spesso, ignorando con cortese fermezza qualsiasi attenzione gli fosse rivolta dagli altri esseri umani della casa. Al massimo accettava con garbo, avendo l'aria di farlo giusto per non offenderci, un boccone prelibato o una grattatina sulla testa. Ma niente strusciamenti, testatine e men che meno fusa, che invece riservava per la sua ragazza. E allora, allungato dalle vibrisse alla punta della coda sulle sue ginocchia, diventava l'immagine della felicità felina, con tutto l'affetto e la gioia che un gatto può avere dentro e fa traboccare da quell' agile corpicino peloso e ronfante.
Poi mia figlia lasciò Giò e noi, probabilmente in quest'ordine, l'abbiamo vista versare qualche lacrima accarezzando Giò, mentre le sue ciglia rimasero assolutamente asciutte salutando noi, la mattina che prese il treno per seguire un nuovo amore, un certo Erasmus che la portò a studiare in una lontana università francese.
Giò non si diede pace. Tornò per settimane tutte le mattine e tutte le sere cercando il suo amore fuggito chissà dove. Ci guardava, interrogandoci con quei suoi occhi, tanto spietati verso i topini e le tortore che catturava in giardino, portandole trionfalmente sulla porta di cucina, quanto ora erano tristi e sbalorditi per una perdita che non poteva comprendere. Poi anche lui sparì, come spariscono i gatti. Semplicemente non tornò più.
Mia figlia invece tornò, gli anni passarono, si è sposata andando ad abitare nel palazzo dall'altra parte del giardino, sempre frequentato da gatti e gattini che spesso sfamiamo senza chiedere nulla in cambio, e null' altro ricevendo che qualche amichevole testata sulle gambe e la certezza che mai nessun topo di qualsiasi taglia o colore potrà insinuarsi in casa nostra passando di lì. Le speranze di sopravvivenza per loro sono pressappoco quelle di un gelato di crema a ferragosto.
E poi questa mattina Giò è ricomparso. Dal nulla, come compaiono i gatti. Ha attraversato il giardino con lenta dignità. Gli altri gatti, pronti sempre a difendere il loro territorio, lo hanno guardato con rispetto e gli hanno lasciato il passo, come fanno gli abitanti di un villaggio all' arrivo inaspettato di un signore del quale riconoscono l'antica nobiltà. Grosso, provato da chissà quante sfide, una cicatrice sul naso, leggermente zoppo, certamente vecchio, ma certamente lui. Nero un poco brizzolato, con la sua macchia bianca sul dorso. Abbiamo aperto ed è entrato tranquillo, come fosse uscito ieri. Ha salutato mia moglie e me con una strofinatina sulle gambe, poi si è seduto davanti alla porta del frigorifero e ci ha guardato, sapeva ciò che voleva. Quando gli abbiamo porto il piattino col cibo ci ha ringraziato al solito modo. Nel frattempo è arrivata mia figlia che avevamo avvertito della visita. Gli è corsa incontro chiamandolo per nome, per accarezzarlo e coccolarlo. Lui era intento alla cerimonia della pulizia del muso con la zampina. Non l'ha degnata di uno sguardo. Ha interrotto la pulizia e si è diretto alla porta facendosela aprire con un perentorio “Maaao!”. C'era tutto in quel miagolio, si è percepito perfettamente: ”Non ti ho perdonata, non si abbandona così un Gatto innamorato”.





Autobus & Corriere

Un bel viaggio organizzato in autobus gran turismo, tutti i confort. Erano anni, anzi decenni che non viaggiavo in autobus. Veramente dai tempi che si chiamavano "corriere".Certo, in città io giro in autobus, ma loro, gli autobus urbani, sono maschi, ruvidi, essenziali. Ci sali e ti sbatacchiano di qua e di là. Se ti siedi non ti accolgono, ti sopportano a malapena e te lo fanno capire dalla durezza del sedile, anzi dello sgabello. Poi tutti quei pulsanti per chiedere la fermata, a portata di ogni dito, sembrano messi lì per dirti "dai, scendi, sei ancora qui?". Le corriere no, loro sono femmine; accolgono con luci sapienti, ti avvolgono in sedili comodi, reclinabili, aggiustabili, magari sono anche eiettabili, non lo so, guardo con sospetto tutti quei pulsanti, non vorrei trovarmi sparato oltre il tetto, appeso ad un paracadute, di seta naturalmente. Poi la televisione, l'aria condizionata; mi guardo intorno e vedo addirittura la toilette laggiù in fondo. Sì, queste corriere sono femmine, morbide, accoglienti, spalancano la loro porta in modo sensuale e ti invitano ad entrare, ma non vorrei scadere nel pornografico. Però un difetto ce l'hanno. Non hanno odore, non fanno rumore, che il motore è un lontano fruscio di otto educati cilindri, hanno il cambio automatico che neanche ti accorgi del suo azionamento, niente stridore di ingranaggi che incastrano a forza i dentoni ruvidi e grattugiosi. Bella senz'anima insomma, ah Cocciante, 1974 mi pare.Invece era molto prima, nel 1956 o giù di lì, che andavo in corriera a scuola, tutti i giorni. E quella corriera l'anima l'aveva, eccome.Salivo e subito la odoravo. Aveva un odore tutto suo, di nafta soprattutto, poi di sedili impregnati dal sudore di centinaia di persone che sedute su quei sedili scomodi andavano a lavorare, oppure a fare le compere nella città, o come me andavano a scuola, visto che nel paese, dopo le elementari, o si andava a lavorare i campi oppure per le medie si andava giù, a Genova. In autunno si sentiva anche l'odore dei funghi, che i cercatori venuti dalla città all'alba, prima corsa ore 5,30 da Piazza della Vittoria, andavano a cogliere nei castagneti sul monte e poi riportavano a casa trionfanti, mostrandoli con orgoglio al vicino di posto. - Eh, guardi questo porcino, sarà almeno quattro etti, bello, sano sano, senta che profumo!
Quell'odore mi piaceva, come mi piaceva il rumore del motore. FIAT 682 diceva una targhetta sul cofano, dentro la corriera. Sì perché il motore era lì, all'interno, a fianco del sedile del guidatore, coperto appunto da un cofano verniciato tenuto chiuso da due maniglioni metallici. Altro che cilindri educati! Rombava vibrando e fremendo, esprimendo con rabbia tutta la sua riottosità ad accelerare, a prendere quei pochi giri in più che spingevano il corpaccione verniciato di blu della corriera su e giù per la statale 45, stretta e sinuosa.
Quando lo trovavo libero, mi piaceva sedere sul seggiolino davanti, quello che il cofano del motore separava dall'autista. Guardavo non la strada, ma appunto il guidatore che con il suo autobus aveva un rapporto di amore-odio, oggi si direbbe conflittuale. Molto fisico, che ci voleva forza per girare quel volante grande, senza la minima ombra di servo questo o servo quello, come oggi siamo abituati a vedere. Bisognava usare i muscoli, sudare per seguire tutte quelle curve, a filo dei burroni e delle spallette dei ponti che a me ragazzino sembravano attrversare i baratri del Pamir, ma in realtà scavalcavano striminziti valloncelli dove rigagnoli assetati andavano a buttarsi nel Bisagno, nella vana speranza di dare a quel torrente una sua dignità di corso d'acqua. Ammiravo quegli autisti, oramai li conoscevo tutti per nome. C'era Caifa, alto, segaligno, paterno; c'era Benzi, "Benzina" per gli amici, ma il mio preferito era Soresi. Grosso, sanguigno, sapeva tirar fuori da quel diesel primordiale tutti i muli recalcitranti che possedeva. Correva Soresi, e molti passeggeri quando vedevano che al volante c'era lui salivano malvolentieri. Ma sbagliavano, era bravo, era il migliore. E come usava quel cambio! Anche per quello ci volevano forza ed arte. Automatismi? Ma per carità! Le leve da maneggiare erano due, le marce vere e proprie e la leva della ridotta. Si partiva in prima, poi per inserire la seconda occorreva mettere in folle, azionare la leva della ridotta e poi tornare alla leva principale per inserire la marcia. Tutto accadeva tra grandi colpi di frizione e denti di metallo che, mi immaginavano, sprizzavano scintille incastrandosi fragorosamente. Naturalmente bisognava fare in fretta, cercando di non far perdere troppa velocità, si fa per dire, alla corriera che sennò occorreva tornare alla prima e rifare tutto daccapo. Un arte, come ho già detto. Soresi con i baffoni da cosacco, che oramai anche lui conosceva tutti noi ragazzi delle medie G. Parini. Ci raccoglieva alle fermate dei paesi e delle frazioni e se vedeva che uno mancava chiedeva come mai. A volte lo aspettava e lui, il ritardatario, correva a perdifiato ché poi il giorno dopo gli toccava portare la giustificazione, visto che altre corriere che ci portassero a scuola in tempo non ce n'erano. Poi, arrivato davanti alla scuola, il Soresi si inventava una fermata, che la fermata vera era trecento metri dopo. Un giorno c'era un tram che andava piano, un altro una delle rare automobili che doveva parcheggiare proprio li, un altro giorno ancora non trovava scuse e si fermava e basta: i ragazzi dovevano andare a scuola, piove, mica li vogliamo far bagnare tutti, vero?
Eh si, quelle corriere avevano un anima, e chi le guidava aveva muscoli e cuore.
E queste invece? Beh, questa in particolare ha una hostess carinissima che offre a mia moglie e me qualcosa da bere. Ecco, le hostess proprio non c'erano, ma tanto questa non è che la posso guardare giù per quella scollatura generosa, con mia moglie devo fare tutto un lungo viaggio, mica voglio che incominciamo con un bicchiere di aranciata versato in testa ed una lite lunga mille chilometri, vero?





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9 Agosto 2006
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