IL MAGO CHIO'
Mago Chiò vuol dire, nella parlata elbana, "Mago Chiodo"; ma perché si fosse
voluto chiamare così, lo dirò dopo. Aveva un nome e un cognome, e una data di
nascita: si chiamava Francesco Grassi e era nato in un'antica via di
Portoferraio, via dell'Oro, il 1° marzo del 1867.
Aveva un aspetto
ordinario. Di media statura e di media corporatura, sebbene piuttosto sgraziata
e dinoccolata. Però la natura gli aveva fornito la dote di un'enorme agilità,
con delle braccia lunghe e delle gambe assai robuste. Non aveva né arte né
parte; nato da contadini, il contadino non gli era andato di farlo. Fin da
ragazzino vagava allora per le campagne attorno a Portoferraio e un po' in tutta
l'Elba, senza però spingersi fino alle remote zone occidentali (Pomonte,
Chiessi) dove non andava mai nessuno. Campava rubando, anzi rubacchiando quel
che si poteva trovare; un barbone, un ladro di polli. Però aveva un modo
singolare di rubare: prima di farlo, si annunciava dando fiato a una trombetta
scassata che aveva trovato o fregato chissà dove e chissà a chi. Se qualcuno lo
sentiva, se ne andava; se non lo sentiva, procedeva al furto. Ma si dice anche
che i contadini lo lasciassero fare e, nella maggior parte dei casi, facessero
finta di non aver sentito la trombetta.
Era quel che si direbbe un tipo
strano, ed è probabile che non avesse tutte le rotelle al suo posto. Un
emarginato. Però era molto sicuro di sé e si vestiva in un modo da farsi
riconoscere da tutti. Portava sempre una casaccona bianca che teneva legata in
vita con una cordaccia; in testa s'era rincalcato un berretto nero pesante che
portava anche in piena estate sotto lo stellone, una sorta di colbacco che
teneva allacciato sotto la bazza. Alla cintola aveva invece appesa una gavetta,
dove teneva sempre un po' di vernice bianca. Vi dirò ora a che cosa gli
serviva.
Francesco Grassi, detto Mago Chiò, aveva una fissazione. Voleva
diventare famoso, ad ogni costo. Con la sua strabiliante agilità era diventato
uno scalatore, anzi un vero e proprio funambolo. S'arrampicava ovunque potesse:
fari, muraglie, fortezze, castelli, torri, campanili. E dopo un po', famoso lo
diventò sul serio. Fu quando dette prima la scalata alla cupola di Santa Maria
del Fiore, a Firenze, il capolavoro del Brunelleschi; poco dopo ripeté l'impresa
a Bologna, arrampicandosi fino in cima alla torre degli Asinelli. Ne parlarono
tutti i giornali, anche perché, una volta in cima, il Grassi cavava fuori il
pennello, lo intingeva nel suo barattolo di vernice bianca e scriveva, a
caratteri cubitali: MAGO CHIO'. Il suo marchio, e anche l'unica cosa che sapesse
scrivere: era analfabeta.
Un "nessuno", un "ultimo" lo scopo della cui
vita era uno solo: impressionare il prossimo. Sollevarsi in qualche modo. E si
sollevava davvero, a centinaia di metri d'altezza.
A chi gli chiedeva che
cosa volesse intendere con quel soprannome di Mago Chiò che s'era dato,
rispondeva con il suo buffo parlare pomposo, sgrammaticato, mirabolante: Chiò
Mago è un nome dato da me, significherebbe andando in qualunque pericolo di
vita, in qualunque altezza che possa restare incredula al popolo!
Suo
padre, Marco Grassi era un lombardo, un lavoratore stagionale capitato dal
Veneto, come tanti (e come, ad esempio, anche mio zio Borzino Pietro, nato a
Robbio Lomellina, provincia di Pavia, morto l'anno scorso a 97 anni), prima in
Maremma e poi all'Isola d'Elba. La famiglia era poverissima, e le condizioni
erano aggravate dal fatto che Marco, quando gli capitava di guadagnare mezza
lira, se l'andava subito a tracannare all'osteria. La moglie mise al mondo, uno
dopo l'altro, tre maschi, e la fame aumentò ancor di più. I tre fratelli
divennero il trio più singolare di tutta Portoferraio; Francesco, il Mago Chiò,
era il
primogenito; nel 1868 arrivò il Micco e nel 1869 il Cavalier Jenny.
Le loro imprese divennero leggendarie; l'ultimo dei fratelli si divertiva a
andare vestito da donna, e vi potete immaginare cosa volesse dire nell'Isola
d'Elba di quel tempo.
Francesco era scappato di casa a undici anni, non
sopportando più la fame e le botte del padre, ubriaco fradicio ventiquattr'ore
su ventiquattro. E fu così che entrò nella povera leggenda d'un minuto, ma anche
in quella stabile dell'Isola. Lì niente la può scalfire.
Al culmine della
sua effimera fama di scalatore e di equilibrista, conobbe una donna. Se ne
innamorò pazzamente. Era il periodo in cui il Mago Chiò s'era fissato dietro a
un famoso pittore, Telemaco Signorini; aveva preso a seguirlo in ogni dove,
perché Signorini era il pittore à la page e voleva ad ogni costo farsi ritrarre.
E ce la fece. Il ritratto del Mago Chiò, eseguito nel 1887, è anche l'unica
testimonianza che abbiamo della sua figura. Una testimonianza di
eccezione.
La donna si chiamava, dicono, Eleonora. La descrissero assai
graziosa. E anche come una donna di malaffare, una puttana insomma. Ma chissà se
lo era per davvero, o forse una semplice ragazza del popolo di Portoferraio che
per arrotondare un po' il magro bilancio familiare a volte la dava un po' qua e
là. Era comunque carina e sapeva di esserlo; aveva diciassette anni.
Mago
Chiò, una volta innamoratosene perdutamente, decise che non poteva dichiararsi
come un comune mortale. Studiò un'impresa, una delle sue: avrebbe scritto
stavolta non il proprio nome, ma quello dell'amata, in un punto da dove tutta la
città avesse potuto vederlo. Che fossero le mura Medicee, che fosse il bastione
del Forte Stella (da dove lo avrebbero visto anche le navi che passavano), che
fosse qualsiasi cosa che non potesse essere ignorata.
Ma, come abbiamo
detto, Mago Chiò non sapeva scrivere che il suo, di nome. Avrebbe potuto farselo
insegnare da qualcuno; ma un conto era provare a scrivere "Eleonora" su un
quaderno, un altro tracciare delle lettere di dieci metri con la vernice bianca.
Ci si mise allora di buzzo buono: si fece scrivere il nome "Eleonora" su un
cartone dal suo amico Telemaco Signorini, e cominciò a esercitarsi fino ad
essere in grado di copiarlo a lettere gigantesche sul bastione del Forte Stella.
Così, pensava, la sua amata avrebbe capito, senz'ombra di dubbio. Ma Eleonora
non capì nulla.
Le chiacchiere volavano, a Portoferraio; e così, quando
il progetto di Mago Chiò arrivò alle orecchie della ragazza, questa volle
incontrarlo. Quando lo vide, rimase prima di stucco e poi si mise a
sghignazzare. Disse: E quella specie di netturbino russo sarebbe il famoso Mago
Chiò?
Il Grassi era lontano una quarantina di metri, ma s'accorse subito
della reazione non propriamente da colpo di fulmine dell'Eleonora. Lei gli si
avvicinò. Era una ragazza che non aveva soggezione di nessuno. Gli domandò se
fosse proprio lui il celebre Mago Chiò, quello che scriveva il proprio nome sui
muri. Sissignora!, le rispose lui impettito e fiero; E non sui muri, ma su
fortezze, su castelli, su campanili. Voleva mettere le cose in chiaro.
Non
si trattava di semplici "muri".
Eleonora cominciò, come si suol dire, a
pigliarlo per il culo; gli disse che erano un po' più alti, ma sempre di muri si
trattava. E lui le rispose, con ancor più fierezza, che sui campanili e sulle
fortezze c'era pericolo di morire, sui muri no.
Dei passanti si
avvicinarono e si ricordavano ancora dopo anni e anni quella conversazione.
Eleonora gli chiese, al Grassi, se scrivesse sempre e soltanto il nome di Mago
Chiò. Lui le rispose di no.
- E cosa scrivete d'altro?
- Il
vostro!
Ci rimase così. Ma si riprese subito, con la sua faccia tosta di
diciassettenne, e cominciò a tirare stilettate avvelenate al curaro.
- Ma lo
sapete scrivere, il mio nome?
Mago Chiò stette zitto. E quella rincarò la
dose:
- Avete fatto esercizio? O perché allora non me lo scrivete ora, il mio
nome, su quel muro?
I passanti si misero a ridere; ma la risposta del Grassi
tolse la parola a tutti, e anche la voglia di ridere.
- Io vi voglio
bene. Il vostro nome non lo scrivo su un muro qualsiasi.
Lo scriverò sulla
muraglia del Forte Stella.
Poi girò i tacchi, "con un gesto finale", e se ne
andò.
Telemaco Signorini, in quei giorni, era all'Elba. Erano diventati
amici. La sera il Mago Chiò andò a fargli visita, con una richiesta: quella di
scrivergli, sul solito cartone, una cosa.
Signorini era l'unico forse che lo
chiamasse per nome; gli disse, Francesco, stai attento, per l'amor di Dio.
Quella non fa per te, non ti merita. Ma poi gli scrisse quel che voleva, mica
poteva dirgli di no.
La notte del 27 giugno 1891 i portoferraiesi
sentirono suonare una trombetta dalla parte del Forte Stella, dove c'era il
faro, appena sopra la scogliera del Grigolo.
La storia, oramai, la
sapevano tutti quanti; così la mattina vollero andare a vedere cosa c'era
scritto sul "muro"; e partirono le sghignazzate di tutta una città.
La sola
cosa che il Grassi era riuscito a scrivere era una specie di "M", ma forse
poteva essere anche una "E", oppure una "N" sghemba, seguita da una strisciata
bianca sgocciolante. A mezzogiorno del 28 giugno, l'Eleonora volle pure lei
andare a vedere; poi, casualmente, fece modo d'incontrare il Mago Chiò.
-
Allora, ancora non ce l'avete fatta a imparare il mio nome?, gli chiese appena
lo vide con un'aria da pigliarla a ceffoni; lui, calmo, le rispose che domani
avrebbe visto meglio, e che però non avrebbe più scritto nessun nome. Eleonora
gli tirò allora la coltellata definitiva:
- In ogni caso guardate di
sbrigarvi a scrivere quel che volete, perché domani lascio l'Elba per sempre, vo
a vivere in continente, ho trovato un signore perbene che mi vuole
sposare.
Ora, il Mago Chiò si sentì di morire. Ma era famoso, lui. Non
poteva darlo a vedere, né debolezza mostrare. Gli venne un sussulto del baffo.
Disse solo:
- Scriverò per voi sulla fortezza e poi non mi vedrete
più.
L'Eleonora ci rimase di sasso.
E se n'andò, disperato, a copiare,
a ricopiare, a ricopiare ancora e per decine di volte le parole che Signorini
gli aveva scritto sul cartone. Inutile. Non ce la faceva. Andò avanti fino
all'ora di cena; e allora, andasse com'andasse, si decise. Prese la gavetta con
la vernice e salì in cima al bastione in quattro balletti; si calò con una fune
fino alla strisciata bianca della notte prima, e finì come poteva la sua opera.
Infine, scese fino alla scogliera, sempre con la fune, e controllò quel che
aveva fatto. Era contento. Si leggeva. Non era un gran ché, ma si
leggeva.
Poi tornò a casa per fare un'altra cosa.
Aveva stabilito di
ammazzarsi.
Però lui era il famoso Mago Chiò, e non poteva ammazzarsi in
un modo comune, banale, come s'ammazzano tutti.
Prese il fiasco del vino
e riempì un bicchiere pieno. Poi una scatola di zolfanelli e, con un coltello e
con infinita pazienza, raschiò tutte le capocchie. Gli zolfanelli, allora, erano
di zolfo puro, che è velenosissimo; prese tutte le capocchie e le buttò dentro
al bicchiere. Poi tracannò tutto e si mise a aspettare.
I dolori gli
arrivarono presto, prima di quanto avesse immaginato.
Verso le undici di sera
del 28 giugno 1891, il Grassi uscì di corsa.
L'istinto di sopravvivenza aveva
preso il sopravvento. Quasi sfondò la porta della farmacia; e il dottore, non
appena lo ebbe visto, si rese conto che quello stava morendo. Aveva una schiuma
giallastra alla bocca; cercò di farlo vomitare. Per uno strano capriccio del
destino, Eleonora stava di casa proprio davanti alla farmacia, e sentì il
trambusto precipitandosi fuori in vestaglia come avesse intuito qualcosa. Vide
il Mago Chiò in agonia sul pavimento del locale.
Gli mancavano due minuti
a morire, ma ebbe la forza di cavar fuori dalla casacca bianca un foglio
spiegazzato e di darlo alla ragazza che lo guardava inebetita. Lei s'inginocchiò
e prese il foglio, lo lesse e si mise, dicono, a piangere come una fontana.
Prese la mano del Mago Chiò, di Grassi Francesco, di anni ventiquattro,
nullatenente, analfabeta, senza dimora fissa, arrampicatore, ladro di polli,
celebre. Morì.
Si dice che, non appena fu morto, l'Eleonora lo chiamasse
per nome: Francesco, Francesco!. Il pittore Signorini prese la ragazza in
braccio, dicendole che su quel foglio c'era scritto quel che lui gli aveva
chiesto e che avrebbe dovuto copiare sulle mura del forte. Ma non sapeva se ci
era riuscito.
E la mattina dopo l'Eleonora partì. Era vero che un signore
l'aveva chiesta in sposa. Non era una bugia crudele per fare del male al Grassi.
Prese il piroscafo di linea della Società Toscana di Navigazione, e quando fu
proprio davanti alle mura, non resistette e corse fuori per vedere se c'era
scritto qualcosa. C'era. Ma non era né Mago Chiò, né Eleonora.
C'era scritto
TI AMO. Erano le stesse parole che stavano scritte su quel foglio.
La
scritta fu fotografata. L'ho cercata per ogni dove, negli anni passati dal
fotografo Ridi di Portoferraio, e poi anche su Internet; non ve n'è purtroppo
più alcuna traccia. Non c'è quindi nessuna prova che io non mi sia inventata
tutta questa storia, tranne, sempre si dice, alcuni sbaffi di vernice bianca che
ancora resistono dopo quasi centoquindici anni. L'ultimo vestigio di un amore,
insomma. E quale razza d'amore, per tutti gli dèi che ci siano o non ci
siano.
Il nome di Mago Chiò, però, non morì. Divenne quasi il nome
dell'identità collettiva dell'Isola d'Elba. Se lo presero cantastorie, poetastri
popolari, artigiani per le loro botteghe, persino negozi. A San Piero in Campo,
paese lontano da Portoferraio dove forse il Grassi non aveva mai messo piede, il
caffè della piazza della Chiesa, quella dove ogni anno, a fine agosto, si svolge
una "Serata De André", si chiama Mago Chiò; anzi, il caffè è tra i principali
organizzatori dell'iniziativa, anche perché quella sera la piazza è piena
zipilla e ci fa, comprensibilmente, dei gran soldoni.
Se per caso qualcuno di voi ci passasse,
e se lo desidera, ci faccia un pensiero.
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