Circolo Culturale il Gattopardo

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RACCONTI

Giuseppe Acciaro




“L’ULTIMA IMMERSIONE”

Enrico si tappò il naso, quindi soffiò, e avvertì immediatamente l’aria che gli entrava nelle orecchie, bilanciando così la pressione dell’acqua. Cercò con lo sguardo il suo amico Lorenzo e scorse la sua figura atletica piegata nell’atto di contemplare dei coralli che occupavano compatti buona parte di un’area del fondale. Lorenzo si muoveva in simbiosi con l’ambiente che l’avviluppava, i suoi gesti rivelavano insieme sicurezza e dimestichezza. L’esperienza maturata gli era servita per formare degli aspiranti sub, che seguivano convinti i suoi insegnamenti. Enrico richiamò la sua attenzione; aveva visto profilarsi la sagoma di un pesce napoleone e preferiva che il suo amico gli fosse vicino dato che la situazione poteva rivelarsi pericolosi. Enrico si ricordò di quella volta che offrì ad un esemplare di quella specie delle uova, con esito letale per l’animale. Non l’aveva fatto con cattiveria: commise quell’errore per eccesso di superficialità, dimenticandosi di documentarsi a dovere circa l’alimentazione di quei pesci. A differenza di Lorenzo, non amava senza riserva il mondo marino, ne subiva in parte il fascino e la bellezza, ma nutriva anche timore e diffidenza, non sentiva empatia e non si applicava per accrescere le sua conoscenza in materia. Lorenzo si mosse per raggiungere Enrico, ma dovette allungare il percorso a causa del passaggio di un gruppetto di pesci leone, pericolosissimi per via del loro veleno. Il pesce napoleone passò sopra la testa di Lorenzo e puntò dritto verso Enrico, che era già agitato per degli spasmi del diaframma e della cassa toracica, che attestavano l’aumento di anidride carbonica e il relativo calo di ossigeno nel sangue. Quello era il momento giusto per iniziare la risalita, e volle subito segnalare la cosa a Lorenzo, che però non riusciva a scorgere. Il pesce napoleone continuò ad avvicinarsi  come se avesse uno scopo preciso. Era un esemplare di 2 metri di lunghezza per 170 Kg di peso. Non aveva paura di Enrico, che non sapeva invece come doveva comportarsi. Affastellava nella sua mente ipotesi dopo ipotesi, che cozzavano una contro l’altra, senza che nessuna prevalesse. Si domandava cosa volesse da lui quel pesce. Gli sembrava di essersi già imbattuto in quell’animale, anche se trovò assurda tale supposizione, visto che gli appartenenti alla stessa specie sono pressoché simili  ed è praticamente impossibile distinguerli. Eppure, quel pesce pareva fissarlo come se stesse studiando le sue reazioni e intendesse regolarsi di conseguenza. Enrico faticava a razionalizzare, i suoi pensieri si sbriciolavano, privi di solide fondamenta. Il pesce aprì la bocca in modo tale da ricordare un gesto di sfida, una provocazione. In palese difficoltà, Enrico espirò con maggior forza per alcuni secondi, con l’intento di diminuire la quantità di anidride carbonica.
  
L’affanno lo indusse a sbagliare, e il brusco calo di CO2 comportò anche una
carenza di ossigeno. Si sentiva svenire ma cercò di reagire.

Doveva assolutamente riemergere, ma il pesce napoleone, come se avesse intuito il suo scopo, lo attaccò con un primo, pesantissimo, colpo di coda. Enrico accusò il colpo e poggiò le sue mani all’altezza del petto, temendo una nuova sferzata, che arrivò secca e spietata. Non c’erano dubbi; quel pesce ce l’aveva con lui. Enrico suppose che si trattasse proprio di quell’esemplare a cui aveva offerto le uova. Il pesce si era inabissato dopo il pasto, come se fosse stato fulminato da un malore improvviso, ma evidentemente doveva essersi ripreso e ora reclamava la sua vendetta. Lorenzo si accorse che stava accadendo qualcosa di sconvolgente, ma purtroppo era ancora lontano. Il pesce napoleone proseguì nella sua azione demolitrice. Enrico pativa quegli urti terribili, poi gli parve che sua schiena si spezzasse in due tronconi. La veduta del fondo marino divenne tremula e sfuocata, infine buia. Paralizzato dalla morte dell’amico, Lorenzo osservò il pesce che gli passò accanto, quasi a sfiorarlo, manifestando delle intenzioni tutt’altro che bellicose. L’animale si allontanò, guizzando come se si fosse liberato di un peso.











  “L’OCCASIONE”


Alberto sistemò sul tavolo il volume rilegato e tolse la polvere dalla copertina in brossura.
Rivide le foto di Ernest e William Renshaw, coi pantaloni a vita alta e la maglietta col girocollo stretto, poi si soffermò su dei personaggi femminili come Maud Watson, Blanche Bingley, Lottie Dod…Tutte indossavano delle gonne lunghissime e dei graziosissimi cappellini bianchi . Il taglio cortissimo dei capelli e le espressioni un po’ austere dei loro volti le facevano sembrare molto più mature. Alberto sfogliò rapidamente le altre pagine, passando da atleti come Bill Tilden, Fred Perry, Jean Borotra, la grintosa Suzanne Lenglen, fino ad arrivare a Ken Rosewall, Rod Laver, John Newcombe…
Il volume gli era stato regalato da suo nonno, appassionato  del tennis e discreto giocatore di seconda categoria, nella quale era stato costretto a fermarsi per via di una fastidiosa tendinite che gli aveva impedito una carriera più brillante.
Non aveva un grandissimo talento, per alcuni anni aveva rimediato delle brutte figure nei tornei juniores, ma grazie alla sua costante applicazione e alla sua capacità di metabolizzare le sconfitte, in seguito era riuscito a togliersi delle belle soddisfazioni, costringendo alla resa degli avversari ritenuti di livello superiore.
In vita aveva coltivato pochi interessi oltre il tennis, anche se non era stato un uomo privo di stimoli e curiosità. Dotato di un temperamento agonistico, aveva preferito non disperdersi in attività che non lo avrebbero condotto a nessun risultato. Ripeteva spesso di essersi imbattuto in persone che avevano dissipato le loro migliori qualità, fallendo i propri obiettivi con condotte errate e non perseguendoli con la necessaria determinazione.
Stimava tantissimo suo nipote, lo aveva iniziato al gioco del tennis dandogli le prime impostazioni, gli opportuni consigli. Lo sgridava anche, se lo riteneva giusto, ma subito dopo allentava la tensione con un franco sorriso sotto i lunghi baffi bianchi, e un tono di voce caldo e amichevole.
Era stato lui stesso ad iscriverlo a un corso di tennis tenuto da un maestro, il migliore, della zona.
Poco prima di morire lasciò in dono al nipote tutte le sue racchette, che Alberto utilizzava per allenarsi.
Alberto ripose il volume nel settore sportivo della sua grande libreria in noce, mettendolo accanto ad una monografia su John McEnroe.

Uscì di casa dopo aver scritto un biglietto a sua madre, avvisandola che avrebbe tardato.
Si sentiva pronto per una buona seduta di allenamento, quel giorno aveva proprio voglia di giocare, di dimostrare qualcosa a se stesso. Questo incentivo gli era sempre stato utile per cercare di spostare più in alto il suo livello di gioco, di superare alcuni suoi limiti.
Mentre percorreva un vialetto ghiaioso si fermò davanti a un centro sportivo delimitato da un’altissima  rete di recinzione che confinava quattro campi da tennis. Vi era tantissima gente che assisteva alle partite. Si trattava di tornei di importanza relativa, ma su uno di quei campi era impegnato Simone, un ragazzo di circa 17 anni, che aveva conseguito una serie di successi e stava affermandosi in campo nazionale. Alberto lo aveva affrontato qualche anno prima e non gli era sembrato molto forte; lo aveva trovato debole sui pallonetti e in difficoltà sui passanti incrociati, dai quali veniva spesso infilato causa una condotta di gioco troppo offensiva. Questa sua improvvisa esplosione aveva colto Alberto impreparato, che non pensava che potesse scavalcarlo. Simone aveva due anni in più di lui e c’era comunque tutto il tempo per tornargli davanti e ridimensionarlo, così almeno pensava.
Un altro consiglio del nonno riguardava proprio l’invidia sotto il profilo sportivo; non bisognava lasciarsi catturare da un sentimento del genere, da cui derivava un’ansia da prestazione, un desiderio smodato di supremazia che avrebbe potuto comportare un peggioramento nei risultati.
Il nonno credeva sempre ad una crescita armoniosa, sia fisica che spirituale, e ciò che usciva da una sana competitività non avrebbe causato che danni.
Alberto considerava saggi quegli avvertimenti ma alla prova dei fatti si rendeva conto che non era affatto semplice tenerli in debito conto.
Simone concluse la sua gara con una secca vittoria sul suo antagonista, un buon giocatore con qualche problema di tenuta nervosa, e si avvicinò alla rete dove si avvicinò ai suoi fan che gli passarono dei foglietti bianchi per gli autografi di rito.
Tra gli astanti vi erano anche delle ragazze, una delle quali non mancava mai in occasione delle sue gare. Lo incoraggiava di continuo battendo le mani in modo scosciante e strillando quando eseguiva un colpo ad effetto.
Lui ringraziava alzando la mano e poi si toccava i lunghi riccioli biondi.
Alberto salutò Simone con un accenno del capo e l’altro rispose cordialmente.

Si avvicinarono altre persone per complimentarsi col vincitore, che non sembrava per nulla infastidito da tante attenzioni.
Alberto riprese il suo cammino, incrementando nervosamente l’andatura. Estrasse dal marsupio il cellulare e guardò tra gli appunti gli impegni che lo attendevano. Era in programma una cena con gli amici e una partita a biliardo,  ma doveva anche incontrarsi con un amico che non vedeva da tempo. Quel giorno si sarebbe scusato con l’allenatore poiché sarebbe andato via prima dell’ora prevista. Ogni tanto gli succedeva…

Alberto batté un servizio angolatissimo. Il suo avversario  riuscì con uno scatto bruciante ad arrivare sulla palla, ma con una volèe  Alberto si conquistò il punto. Non c’erano molte persone ad assistere all’incontro, ma non mancarono gli applausi.
Si sentiva in gran forma…lucido, tonico, concentrato. Quella era la sua giornata, non aveva dubbi. Prima di battere si grattava la barba incolta e si passava la mano tra i capelli precocemente radi.
Contrariamente al solito, si rivolgeva all’avversario con dei commenti ironici, pungolandolo nel vivo e provocandolo sottilmente. Quelle frasi se le era preparate da tempo, come un attore consumato.
Realizzò un altro punto sulla propria battuta, e nel game successivo gli riuscì una fantastica smorzata sotto rete, quasi un omaggio al grandissimo McEnroe.
Gli applausi, stavolta, furono più intensi e numerosi. Alberto ringraziò con un inchino.
Sulla battuta del suo avversario infilò un passante fulminante, un pallonetto da fondocampo
e un rovescio lungo linea.
Mancava un punto…uno soltanto…

Il suo avversario provava ad attaccare, a recuperare lo svantaggio, ma non vi era nulla da fare. Alberto spezzava qualsiasi trama offensiva e replicava mutualmente. Avvertiva una grande forza mentale. Il suo gioco era imprevedibile, creativo, aggressivo.
La partita si concluse con un suo lob in topspin. Punteggio finale: 6-4, 4-6, 6-2, 6-2.
L’avversario corse verso di lui per dargli la mano, che Alberto strinse con vigore. Aveva sconfitto il campione italiano, il suo amico/nemico Simone.
“Mi sembra che tu ti sia impegnato”, osservò Alberto.
“Sì, ho dato tutto, ma tu stavolta sei stato più forte”.

“Peccato che questo incontro non contasse nulla”.
“Bé, qualcosa conta…tu, un giocatore di seconda categoria, ha sconfitto il campione italiano”.
“Già…ma con la seconda categoria non si va da nessuna parte”.
Alberto sembrava essersi rattristato, e Simone si sentì in imbarazzo.
Si salutarono, e Simone corse incontro alla sua giovane moglie, una biondina sorridente.
Alberto puntò verso le docce. Dopo essersi lavato, sarebbe andato in pizzeria con dei suoi amici per festeggiare la vittoria, ma sarebbe rincasato presto, visto che l’indomani lo attendeva il turno mattino presso l’ufficio di spedizioni.
Pensò che se fosse stato ancora vivo suo nonno avrebbe gioito per questa sua vittoria, ma lo avrebbe anche rimproverato per i mancati traguardi.






LA GRANDE OPPORTUNITA’

Ashek era stato costretto a fuggire dal villaggio. La storia si era ripetuta…I signori o i regnanti che governavano le comunità non tolleravano di venire dileggiati dai suoi dipinti beffardi ed irridenti. Quando vi erano delle situazioni che non tollerava si sentiva particolarmente pungolato e reagiva alla sua maniera, con gli strumenti che conosceva meglio.
Ancora ansimante, si fermò sotto un ippocastano. Un merlo lo salutò con un trillo.
“Sei scappato da quel brutto posto, vero?”, gli chiese con un timbro melodioso.
“Sì, anche tu ci sei stato?”
“Già, ma vi sono rimasto pochissimo. C’era una brutta atmosfera”.
“E’ difficile trovare una situazione soddisfacente”.
“A volte bisogna crearsela”, suggerì il merlo mentre volava da un ramo a un altro.
“Cosa vorresti dire?”
“Le tele che hai sottobraccio parlano chiaro: tu sei un pittore. Hai una grande opportunità, non lasciartela sfuggire”.
Con il suo caratteristico verso il merlo si accomiatò da Ashek.
Il pittore rifletté per alcuni istanti poi stese una tela in mezzo all’erba e iniziò a disegnare case, strade, alberi, persone…in quel momento si sentiva molto ispirato.
Quando un oggetto o una persona non gli riuscivano bene li cancellava per poi rifarli con maggiore meticolosità. Dopo vari tentativi decise che non avrebbe apportato altri ritocchi. Chiuse gli occhi e restò a lungo immobile, poi entrò nel dipinto, certo che ora non avrebbe avuto più problemi. Aveva ideato persone dai volti sorridenti, animali mansueti, alberi ridenti…
Intanto si era alzato un vento impetuoso, che sospingeva delle nuvole scurissime. Cominciò a piovere e le gocce d’acqua colpivano anche il disegno di Ashek, che intanto stava salutando un graziosa fanciulla. Deformato dalla pioggia, il volto della fanciulla era divenuto improvvisamente mostruoso e la sua voce distorta. La natura appariva grottesca e ridicola, con gli alberi mancanti dei rami o dei pezzi del tronco. C’era un cane che camminava con il corpo spezzato in due, un gatto si dissolse rapidamente.
Ashek uscì appena in tempo dal foglio accartocciato prima che si sfaldasse completamente.
I colori ad olio rimasti dentro la sua borsa erano pressoché inservibili, ma avrebbe comunque potuto ricomprarli.
Così come era arrivata la pioggia cessò di colpo, e il cielo si tinse di una luce violacea.
Ashek si grattò il capo, non sapendo bene cosa fare.






“UNA STRANA ECLISSI”


I giornali non avevano minimamente accennato ad una eclissi, fenomeno che in genere era stato preventivato con largo anticipo. Non riuscivo a classificare quello che stava accadendo…Mi sembrava un’eclissi in alcuni momenti parziale e in altri, invece, addirittura totale. Ero molto emozionato, sudavo tantissimo…estrassi dal mio zainetto il binocolo e guardai verso il cielo cercando di capire il perché di quei repentini cambiamenti. Niente da fare, le idee a riguardo rimanevano poche e confuse. Da un piccolo corso d’acqua uscì un tritone alpestre che percorse qualche metro sull’erba e poi si rituffò come a cercare la salvezza. Una salamandra si muoveva avanti e indietro, totalmente indecisa. Mi muovevo tra giunchi e cespugli, procurandomi delle lievi escoriazioni. Camminavo a scatti e in maniera maldestra. Avvertivo un forte senso di oppressione localizzato tra il collo e la nuca. Mi accorsi che un falco aveva puntato un ermellino, ma dopo un abbozzo di attacco rinunciò alla sua preda. Le anomalie non si contavano. Dietro una serie di carpini si apriva una radura. In quel momento preferivo stare in uno spazio aperto. Gli animali la stavano attraversando di corsa. Passarono dei cervi, con il capo del branco che si fermò per attendere quello che doveva essere uno dei suoi piccoli. Qualche poiana volava a bassa quota, mentre un tasso incrociò la mia strada. Mi sembrò di scorgere un camoscio…guardai meglio, non lo era…Più basso al garrese , quell’animale aveva le corna attorcigliate e la livrea completamente scura con dei riflessi bluastri. La coda, piuttosto sviluppata, terminava con un nodo curioso. Il muso era allungato con la mandibola pronunciata. Sbuffò come un alce, si inarcò emettendo un verso che non avevo mai udito prima. Un rantolo sordo e leggermente vibrato; un suono che non sapevo se definire inquietante o meno. Lo guardai meglio: ormai ero convinto che avesse tutte le caratteristiche di un mammifero, ma nello stesso tempo non apparteneva ad una specie conosciuta. Mi domandai se fosse arrivato dalla vicina Slovenia, ma non mi risultava che vi abitasse un esemplare di questo tipo. L’animale fissava titubante gli altri mammiferi che gli sfrecciavano accanto. Pareva spaesato, dava una sensazione di inadeguatezza, come se gli mancasse qualsiasi punto di riferimento. In quel frangente, la mia passione zoofila era al massimo grado. Imprudentemente mi mossi nella sua direzione, trascurando la possibilità che potesse essere aggressivo, e magari fornito di una robusta dentatura o di artigli retrattili nelle zampe. Tutto poteva essere, perché ero davanti a un animale che, quasi certamente, nessuno aveva mai incontrato. 

La mia convinzione derivava anche dall’assoluta straordinarietà degli aspetti climatici e naturalistici di quella giornata. Quell’animale, estraniato da tutto e da tutti, figlio forse di un assurdo incrocio o discendente di una specie rarissima, si era manifestato proprio in una circostanza del genere. L’eccezionalità dell’avvenimento aveva mutato probabilmente in maniera drastica le sue abitudini, che presumevo fossero quelle di un individuo riservato.
L’animale emise un verso meno profondo ma più aspro, si impennò, scrollò il capo e sparì nella boscaglia. Lo seguii d’istinto, ma lo persi subito di vista.
Rimasi in quella zona a lungo, feci diversi sopralluoghi, ma non lo incontrai più. A volte sperai addirittura che si verificassero nuovamente dei bizzarri mutamenti della natura per avere, così ipotizzavo, la possibilità di imbattermi in lui.
Non parlai con nessuno di quello che mi era capitato, per paura  di venire deriso dagli altri colleghi zoofili.
Col tempo sono aumentati i miei dubbi sulle mie capacità percettive di quel giorno, che dovevano essere in parte alterate, ma quell’incontro c’è stato.






“A POCHI METRI DAL MARE”


Controllo che la macchina gelato Duo-Mio, quella che prepara due gusti diversi, sia già in funzione. Le altre, del gelato Trendy e la zoom (che mi permette di ottenere in circa 45 minuti una quantità per 6 persone), sono già avviate da un pezzo. Oltre che servire i clienti, devo fungere da tecnico e da supervisore. Il ragazzo che lavora con me è discretamente svelto nel servire i clienti, ma si inceppa immediatamente quando le operazioni risultano più complesse.D’altronde ha sempre lavorato in questo modo, come se fosse stato programmato fin da bambino per svolgere mansioni limitate e delimitate, non posso fargliene una colpa. Il suo orario di lavoro è ridotto, non gli chiedo di più per non frastornarlo ed evitargli quegli errori che ogni tanto commette per distrazione. Nel mio lavoro non sono permessi cali d’attenzione, dopo alcuni anni gli automatismi ti aiutano quando non sei in perfetta forma, ma è necessario rimanere sveglio e reattivo. Con i clienti lo scambio verbale è spesso ai minimi termini, le richieste sono sovente urlate e sbiascicate, non ho mai capito fino in fondo se sia per agevolarmi il compito oppure per soverchiare i classici schiamazzi e fragori estivi. A volte incontro delle difficoltà con gli stranieri che frammischiano la loro lingua madre con vocaboli italiani. Mi tocca decodificare, e così rischio di perdere il ritmo. Non sopporto i clienti che si sovrappongono ed enunciano all’unisono i loro ordini, che ovviamente quasi mai coincidono, formando di conseguenza un mix confuso. I primi tempi assaggiavo i miei gelati, valutandone costantemente la qualità, ma dopo numerosi assaggi le mie papille gustative percepiscono sempre i medesimi sapori, anche se questo è forse da attribuire ad una produzione ormai standardizzata. Sopra il mio capanno ho fatto mettere delle tende colorate in maniera vivace. Il sole martella costantemente il lungomare e ogni estate mi sembra più calda di quella precedente. Adesso è un momento di stanca, i clienti sono sporadici, se rallentano ancora il mio aiutante è in grado di farcela da solo, ed io posso raggiungere la riva del mare, farmi un bagno veloce, vedere se incontro quella massaggiatrice cinese. Sono stanco, ma a fine settembre stacco e mi riposo per un lungo periodo, prima di cercare un altro lavoro stagionale. Ho già domandato in vari settori commerciali e sto attendendo delle risposte. Per me ogni anno è diviso a blocchi e a sezioni, non riesco a prospettare nulla di continuativo.

Ho una casa in affitto, che si affaccia sulla via che divide Marebello da Riva Azzurra, ed io a volte non ricordo la mia frazione di appartenenza. Dopo la fine dell’estate tutto cambia, si spegne, si ingrigisce. Da una uniforme vivacità si passa ad una stasi altrettanto uniforme, come se mancasse in mezzo un punto di raccordo, di collegamento. All’inizio di ogni estate mi diverto con una sorta di ipotetica valutazione sul numero di turisti stranieri con un’eventuale suddivisione in percentuali a seconda della nazionalità. Un gioco ozioso e ricorrente, nel quale cerco riscontro tra le statistiche offerte dai quotidiani locali. E’ un modo per tenere occupata la mente in maniera differente. Durante le pause, quando passeggio sulla riva, mi piace soffermarmi ad ascoltare idiomi e dialetti, osservare maturi signori che ostentavo orgogliosi pance simili a cocomeri, mostrandole come se fossero perfettamente piatte. I giochi da spiaggia sono pressoché gli stessi, con i racchettoni che la fanno da padroni, mentre è in costante aumento il divertimento organizzato e pianificato, con la ginnastica-dance su basi techno e intrattenitori dalla battuta rimasticata. Scendendo lungo l’Adriatico certe caratteristiche mutano o si attenuano. Una volta andai in vacanza in Toscana, e là l’impostazione è differente. I ritmi sono più naturali, non ho avvertito l’obbligo di divertirsi. Il paesaggio è inoltre più presente, degno d’interesse, non si pone come uno sfondo compatto. Ho notato un calo dei flirt, le belle ragazze affittano uno sdraio in riva al mare e restano paralizzate sotto il sole oppure se prendono un ombrellone lo scelgono nelle file interne. Gli abbordaggi sono meno individuali, prevale un approccio di gruppo che ritengo piuttosto improduttivo.
Le massaggiatrici orientali camminano distanziate l’una dall’altra e preferiscono la riva come campo d’azione. S’inoltrano sorridendo tra i lettini, cercando di cogliere gli sguardi più ricettivi e di capire chi sia disposto, in mezzo a quella massa di corpi, a lasciarsi manipolare docilmente il proprio. Non sono quasi mai insistenti, in genere accettano il primo diniego e intuiscono chi è fermo sulla sua decisione. Ho imparato a distingure le varie razze da tanti particolari, l’incarnato, il taglio degli occhi, la forma del naso, la statura… Quest’anno vi sono meno venditori ambulanti, sono scesi più giù lungo le Marche e le prime spiagge dell’Abruzzo.

Mi trovo anch’io sulla riva. Ho riconosciuto da lontano la camminato di Zhang Wo.
E’ caratteristica, con quella spalla leggermente arcuata e il braccio libero distante dal fianco. Non sorride eccessivamente, è per questo che quando dischiude le labbra mi sembra spontanea. E’ In Italia da circa due anni, ma parla discretamente la nostra lingua. Pratica il massaggio cinese Tuina, anche se ha ammesso che quella che applica sulla spiaggia ne rappresenta una versione incompleta e rimaneggiata. Mi ha parlato spesso di yin e yang, del qi. Termini che conoscevo per alcune letture affrettate e tramite un amico appassionato a questi temi, però Zhang mi ha spinto ad approfondire l’argomento. Presto la inviterò fuori, probabilmente accetterà, almeno così credo. Intendo uscire in macchina e non stare in zona, con le serate troppo consequenziali rispetto alle giornate. Cercherò di spezzare il disegno ludico per reiventarne un altro, immettere dei nuovi elementi. Magari questo è ciò che cerco io, lei la pensa diversamente. Non ho idea di come trascorrano la sera le lavoratrici di origini orientali. So che qualcuna rincasa presto, credo che non amino le discoteche rumorose. Alcune fanno gruppo tra loro, formando quasi dei piccoli clan. E’ una scelta delle stanziali più che delle turiste. Quando non lavoro sèguito ad osservare, ad analizzare, a congetturare…
Commetterò forse diversi errori, ma devo sfrondare questa apparente varietà, perpetrarla prima che mi appaia monocroma. Se dovessi frequentare Zhang mi sentirei, penso, al di fuori della routine estiva del predatore da spiaggia, che punta sulle solite etnie (la tedesca…la brasiliana…).
Ho 34 anni, sono single, e il dopo estate si prospetta sempre più pesante. Conosco qualche bella ragazza ancora libera, ma in paese ci si muove con circospezione. Anzi, sembriamo tutti dei fantasmi che non si incontrano mai tra loro e che assumono una forma corporea da tarda primavera in avanti.
Mi avvicinò a Zhang, sperando in un’apertura. Il fragore del mare sovrasta le urla diffuse dei bambini. Sono costretto a regolare il volume della mia voce. Coraggio…ci siamo!


   



“ UN PO’ DEL SUO TEMPO”      


Entra, dà subito un’occhiata all’interno del locale e si sofferma su un giocatore intento ad una partita a briscola. Non gli piace quell’uomo, non gradisce le sue urla improvvise e il fatto che cerchi un facile consenso tra gli astanti. Ignora il giocatore e si guarda intorno, cerca di individuarmi. Sto per alzare il braccio ma lui ha già capito che sono io quello che gli ha telefonato e spedito il dattiloscritto. Si aggiusta gli occhiali e mi tende la mano, che stringo un po’ intimidito. Sotto il braccio ha una cartella che depone subito sul tavolo. Si siede, si pulisce gli occhiali e apre la cartella. Inizia a scartabellare tra i fogli, poi trova quello che cercava. “Il suo lavoro è meditato, sofferto, a tratti mi è parso convulso, ma questo non è necessariamente un difetto. Non era facile, in una storia come questa, tracciare un percorso ben delineato per i singoli personaggi. Le loro contraddizioni non potevano che condurli su strade tortuose, e quindi ogni realtà soggettiva è filtrata da molteplici aspetti. Stabilire una verità oggettiva, una sorta di partitura comune tra tante voce individuali è ancora più arduo. Ma è proprio ciò che il lettore vuole? Che lei stesso desiderava quando ha concepito il suo romanzo?” restai in silenzio. “A mio avviso questa indeterminatezza, quanto voluta o meno non posso dirlo, dato che non mi ha risposto, è la migliore cifra espressiva. E’ bene seguire delle direttive nel corso di un lavoro artistico, ma c’è comunque qualcosa che sfugge al disegno generale e tocca magari altri lidi. Ci sono anche dei difetti, una certa timidezza linguistica in alcuni passaggi, come se vi fosse la paura, così sembra, di affermare un proprio stile, di porsi come voce distinta. Questo è un peccato, ma si è sempre in tempo a porvi rimedio. La spinta creativa viene in un certo senso smorzata o perlomeno velata rivolgendosi ai propri modelli, i numi tutelari che danno la sensazione di sorreggerci quando attraversiamo una fase di impasse e il pensiero e di conseguenza la scrittura perdono la fluidità.” Si aggiusta gli occhiali e sistema il lungo cappotto grigio scuro su una sedia vuota. “Pubblicare è diventato ora più difficile, ci sono delle muraglie editoriali che non lasciano passare nulla o quasi, mi riferisco per brevità solo al versante della narrativa e della poesia, che non nasca già deteriorato, svilito, sotto l’egida della banalità. Questo tipo di produzione incontra però fasce del pubblico, poiché il nulla si può plasmare e indirizzare verso coloro che sono pronti ad accoglierlo. Gli autori sono spesso uomini di spettacolo, ai miei tempi per fortuna non scrivevano o comunque non venivano pubblicati, che non hanno vocazione per la narrativa. Non possiedono talento e nemmeno gli è richiesto, visto che potrebbe rappresentare (e il paradosso è apparente) un problema. Annuisco convinto. “La ringrazio per i consigli e il suo interessamento”, rispondo. “Ci lavorerò ancora sul suo testo. Altre persone mi hanno contattato e lo faranno in seguito, perché i legami, le empatie non finiscono. Io le considero eterne. Capisce cosa intendo?”. Mi saluta con un cenno della mano, assicurandomi che si rifarà vivo. Richiude la cartella e si infila tra le persone accostate ai tavoli. E’ sparito.






“FRANCESCO E’ IN BILICO”

Francesco era approdato a delle scelte ben precise: il processo era stato lungo e travagliato, ma ce l’aveva fatta.
Mai più, quindi, agli approcci poco convinti, alle avventure mal orchestrate e prive di identità, che si spegnevano quasi sul nascere per la mancanza di una forte motivazione. In passato lui aveva rimediato qualche brutta figura data la sua reticenza nell’affrontare situazioni poco incentivanti. Ora aveva l’assoluta certezza che sarebbe stato depistante, otre che mentalmente destabilizzante, lasciarsi fuorviare dai propri desideri repressi, che portavano ad una sopravvalutazione della possibile partner, o dalla eventuale disponibilità altrui.
Lui non credeva nemmeno in una relazione affettiva priva di una marcata connotazione sessuale.
Se una donna non l’accendeva da un punto di vista fisico, Francesco si comportava con lei in modo asessuato, dato che non avvertiva i prodromi di un coinvolgimento che oltrepassasse l’amicizia. Non rinnegava l’impeto dei grandi sentimenti, ma questi dovevano scaturire da una dimensione erotica, oppure anticipare o meglio ancora svilupparsi in sincrono con la medesima.
Francesco sosteneva un approccio di natura semiologia: in un sistema di segni da interpretare, da sviscerare, generato dai gesti, dagli sguardi, dal timbro vocale di una donna. In questa maniera non veniva sollecitata soltanto la sua razionalità, ma anche la sua fantasia.
Francesco non voleva delimitare sia la sfera sentimentale che quella sessuale; a suo parere entrambe dovevano rimanere strutture aperte, ampliabili e perfettibili. Sapeva che la sua ricerca rischiava di diventare infinita, visto che il suo campo d’azione andava sempre restringendosi.
Non confidava molto nell’aiuto dei suoi amici; in primo luogo non gradiva gli incontri combinati, spesso frustranti per via delle aspettative deluse, e poi perché tra le ragazze che gli avevano presentato nessuna di loro lo aveva coinvolto, avviluppato, eroticamente ghermito, avvinto con un’aura irresistibile.
Non era mai stata investita la globalità dei suoi sensi; in una circostanza gli era sembrato di sentire una sorta di attrazione, ma la sensazione iniziale non era stata suffragata da altri fattori.

Non era sufficiente, secondo i criteri di Francesco, essere carine, se poi mancava la stoccata annientante, una frase che dilatasse i pensieri, un gesto stordente. Lo urtavano le espressioni gergali, e si stupiva quando riscontrava delle sciatterie linguistiche in persone che avevano avuto la possibilità di laurearsi. Si sarebbe potuto associare Francesco a uno di quegli scrittori francesi di chiaro stampo cerebrale, tipo un Remy De Gourmont, ma a differenza di questi non si compiaceva delle proprie elucubrazioni; i suoi impulsi erano vitali.

Francesco girava per le vie del centro; aveva due ore a sua completa disposizione, due ore sottratte ad un noioso lavoro di rappresentanza, da lui svolto svogliatamente.
L’istituto di assicurazioni era parco di stimoli, e le provvigioni gli venivano pagate con colpevole ritardo.
I superiori rimproveravano Francesco, reo di usare una tecnica di ventita troppo personalizzata; secondo loro sarebbe dovuto essere più circuente, anche mellifluo qualora fosse stato necessario.
Per diventare un buon agente non era indispensabile convincersi di quanto proposto, bensì persuadere il cliente. Francesco, invece, doveva assolutamente sentirsi in pace con se stesso; nel caso contrario le remore lo avrebbero bloccato.

Osservava le ragazze che gli passavano accanto, che gli attraversavano la strada, che scendevano dai filobus, che uscivano dai negozi.
Era un autentico tourbillon, un quotidiano bagno collettivo a cui si sottoponeva già da diverso tempo. Ne sfiorava qualcuna, delicatamente, senza cadute di stile, valutandone le reazioni, attentissimo alle voci, sensibile alle consonanze e alle dissonanze, fiutando gli odori naturali, i profumi (lo inebriavano quelli all’essenza di fiori).
Si preoccupava a sua volta di piacere, di incuriosire, di suscitare interesse. Non avrebbe mai potuto fermare una ragazza con delle scuse banali come “Che ore sono?” od ovvietà del genere.
Non era capace di recuperare un passo falso; una buona partenza gli avrebbe consentito svariati sviluppi, secondo l’estro del momento e basandosi sulle primissime informazioni dategli dalla ragazza, ma se era costretto ad arrancare finiva presto con l’arrendersi.

Si concentrava più che altro sulle more, che erano anche piuttosto leste nel contraccambiare gli sguardi, e allora lui fantasticava, immaginando di contorcersi a letto con una di loro, in una reciproca esplorazione dei corpi, poi con un’altra, un’altra ancora.
Dopo un po’ sentiva che la sua mente erta sovraccarica, e questo lo privava di tante energie, necessarie per fermare una ragazza e tentare di affascinarla.
Una gli chiese un’informazione; era una ragazza avvenente (un tipo alla Donna Reed, un’attrice che furoreggiò nei primi anni cinquanta), e si intuiva che era una scusa, ma i riflessi di Francesco sembravano essersi appannati.
Il protrarsi della sua vena immaginifica lo rendeva meno reattivo, così rispose asetticamente.
La ragazza, che non comprendeva perché qualche istante prima lui l’avesse fissata con occhi concupiscenti, tagliò corto, ringraziandolo frettolosamente.
Francesco capì di avere perso un’altra occasione…
Pensò a quella ragazza in termini erotici, ma smise ben presto per non accentuare il senso di frustrazione. Quella ragazza aveva un’espressione intelligente, un sorriso simpatico, per questo il suo rammarico era maggiore del solito.
Francesco pativa le proprie sincronie, che lo ostacolavano dal vivere globalmente una situazione, che gli impedivano di comprenderne istantaneamente i vari aspetti.
Probabilmente i suoi pensieri erano eccedenti in taluni frangenti, e quindi controproducenti.
Continuava a guardare i piedi, le gambe, le sinuosità, i tratti del viso, i capelli delle ragazze. Lui non trascurava nessun particolare, ogni parte del corpo aveva le sue attrattive.
Adesso le ragazze sembravano meno reattive nei suoi confronti; Francesco stava smarrendo ogni sicurezza. Si tastò il viso affilato; d’estate la barba gli ricresceva rapidamente, e il pizzicore causatogli dal contatto tra i peli e le sue dita gli ricordò di aver saltato una rasatura.
L’ultima notte aveva dormito poco e male, temeva dunque che i suoi occhi apparissero stanchi e infossati.

Gli venne voglia di rientrare a casa e di tenere compagnia a sua madre, di scambiare con lei delle opinioni riguardo le ultime produzioni discografiche ed editoriali, o di riguardarsi un film di Chabrol, “L’Amico di Famiglia”, che adorava oltre che per ragioni estetiche anche per l’erotismo di qualche scena.
Francesco era molto preoccupato; se non avesse trovato al più presto la partner ideale rischiava di rimare sepolto dal suo immaginario erotico.







 “TRE GOCCE D’ACQUA”



Le pecore, animali forniti di buona memoria, avevano imparato alla perfezione le nuove manovre: Ora seguivano docili il pastore, che le guidava lungo le ondulate colline umbre.
Giorgio conosceva tutto di quegli animali., avendo fatto il pastore in diverse regioni italiane.
Tra le varie razze le sue preferite erano quella Barbaresca, sparsa dappertutto in Sicilia, che offriva una buona produzione di carne e latte, e quella Massese, della quale gli piacevano il vello scuro e l’accentuato profilo convesso.
Le pecore che stava custodendo appartenevano a quest’ultima razza.
Giorgio guardò l’orologio; con l’approssimarsi dell’estate il tempo di pascolamento veniva prolungato. Da lì a poco avrebbe ricondotto gli animali nel loro recinto.
L’idea di ritrovarsi faccia a faccia con Gabriele Fioravanti, il suo padrone, lo incupì.
Il giovane non tollerava né il suo modo di fare, dispotico e arrogante, e nemmeno la sua mancanza di sensibilità nei riguardi di quelle miti creature.
Se non fosse stato per gli interventi pacificatori della moglie di Fioravanti, Giorgio si sarebbe già licenziato.
Comunque sia il suo rapporto di dipendenza era destinato a cessare. Giorgio era interessato a salire più a nord, alla ricerca di altre esperienze lavorative.
Il giovane arrotolò le maniche della sua camicia a scacchi e si tolse il cappello a cencio, che formava un tutt’uno col cuoio capelluto.
Coadiuvato dai suoi cani spinse le pecore sulla via del ritorno.
“Dov’è quel perdigiorno? Non è ancora tornato?” la voce raschiata di Gabriele Fioravanti ferì l’udito della moglie.
“Non chiamarlo così! E’ un bravo ragazzo, che lavora duro” replicò Morena.
“e’ solo un vagabondo, incapace di trovarsi un lavoro stabile” biascicò Gabriele.
“Sei ingiusto! Se non fosse per quel giovane la tua attività andrebbe a rotoli”.
Gabriele socchiuse gli occhi, increspò le labbra in uno strano sorriso, poi scoppiò in una risata fin troppo scandita, da sembrare forzata.
“Non dirmi che quello zerbinotto ha fatto colpo su di te…eh? E’ vero o non è vero? Perché non rispondi?”

Gabriele sbatté la bottiglia di vino, dell’ottimo Montefalco, sul tavolino in legno laccato, e spostò i suoi 110Kg di adipe e muscoli atrofizzati dalla poltrona, che parve subito dopo ricomporsi.
“Piantala!” gridò Morena.
Fioravanti avanzava lentamente, vacillando e ondeggiando sotto l’effetto dell’alcool.
Morena prese il secchio con dentro i panni da lavare, chiuse dietro di sé la porta del tinello e percorso l’angusto corridoio ad angolo retto si ritrovò all’esterno.
In casa c’era una situazione invivibile. Si percepiva una tale tensione che un estraneo, entrando nell’abitazione, ne sarebbe fuggito immediatamente.
Gabriele Fioravanti degenerava sempre più, soprattutto da quando avevano lasciato Perugia per stabilirsi in collina, non molto lontano dal fiume Clitunno, e intraprendere l’attività di allevatori.
Suo marito non aveva mai ammesso la sua scarsa attitudine per quel tipo di lavoro.
Morena lo consigliava spesso di tornare sulle sue decisioni, di rientrare a Perugia, ma lui testardo ed orgoglioso, non intendeva recedere.
Dicesa di aver deciso di cambiare vita per salvare il loro rapporto, già agonizzante, e che era troppo tardi per riprendere la vecchia strada.
Cercava di convincerla, e forse anche di convincere sé stesso, che lui era in grado di svolgere egregiamente qualsiasi lavoro.

Morena entrò nel magazzino e si fece largo tra il legname accatastato, le cassette degli utensili e quelle della frutta, muovendosi tra vari attrezzi.
Si avvicinò al grosso lavabo dal colore grigiastro, e mise il secchio coi panni sotto il getto dell’acqua.
Morena sentì gridare.
Suo marito stava aggredendo Giorgio, che era appena rientrato con il gregge.
Il giovane pretendeva che venissero prestate delle cure ad un agnello.
Gabriele sosteneva che non era il caso di perdere del tempo e che era meglio sopprimere la bestiola.
Da una finestra laterale Morena vide Giorgio che si allontanava dopo aver alzato il pugno ed essersi trattenuto contro Gabriele.
              

Questi rientrò in casa facendosi largo a pedate tra alcune galline.
Cadde una goccia d’acqua.

Giorgio era fuori di sé.
In quel momento avrebbe voluto massacrare Gabriele Fioravanti, costringerlo a rimangiarsi quelle parole sferzanti, offensive.
Quell’uomo non si meritava una donna come Morena, così sensibile, intelligente, affascinante.
In passato Giorgio aveva avuto dei datori di lavoro duri, intransigenti, anche indisponenti, ma mai così negativi come Fioravanti.
Di questi Giorgio non salvava proprio nulla; Fioravanti era un coacervo di difetti, talmenti marcati da ritenerli ormai irrimediabili.

Si ricordò che Fioravanti possedeva una pistola che teneva nascosta in camera sua. Il giovane pensò di recuperarla, di puntarla contro Fioravanti e di scaricargliela addosso.
Si sarebbe dunque vendicato delle umiliazioni, degli insulti ricevuti, e Morena sarebbe stata libera.
Giorgio aveva notato che lei lo guardava con un certo interesse. Forse in lui vedeva tutto quello che non aveva trovato nel marito.

Giorgio tornò ad occuparsi dell’agnello sofferente, ma non riusciva a scacciare l’immagine di Fioravanti morto, ucciso con la sua stessa arma.
Cadde una seconda goccia d’acqua.

Morena aveva bisogno di calore umano, di qualcuno che la stringesse con affetto, che non cercasse solamente di possederla, incurante delle necessità di lei.
Giorgio era giovane, ma non immaturo.
Fra di loro non era ancora successo nulla, almeno per il momento.
Certo che se fosse stata libera lo avrebbe incoraggiato in modo assoluto, inequivocabile.
Morena era stanca del marito. Detestava il suo timbro di voce, i suoi capelli stopposi, il modo di camminare, il respiro pesante…
Ormai le ripugnava ogni poro della sua persona.
Le venne in mente quella grossa pistola che Gabriele teneva in camera sua, nella consolle.
Si spaventò dei propri pensieri; finora non si era mai spinta così lontano. Poggiò in erra il secchio e si mise una mano sulla fronte, come se fosse febbricitante.

Non riusciva a immaginarsi un futuro che prescindesse dalla morte di suo marito.
Questa era la chiave di volta che le avrebbe aperto nuove possibilità.
Si girò di scatto, come se si sentisse osservata.
Giorgio aveva il viso e le mani, queste distanziate tra loro, che aderivano contro il vetro della finestra.
Di slancio, lei fece la stessa cosa.
Le pareva di avvertire il tocco caldo delle mani di lui, la sua bocca ardente.
Delle gocce di sudore caddero quasi all’unisono dalle fronti dei due ipotetici amanti.
Giorgio la guardò dapprima con tenerezza poi con un’espressione sovraeccitata.
Morena capì che stava per succedere qualcosa di sconvolgente.
Giorgio corse verso la casa.
Morena si lanciò a sua volta.

Gabriele sfogliava nervosamente il giornale.
Il senso delle parole gli sfuggiva.
Pensava a come sistemare quella testa calda di Giorgio.
Un semplice licenziamento non sarebbe stato sufficiente.
Sentì che qualcuno stava entrando in casa…
“Sei tu, Morena?” chiese.
Gli sembrò di avvertire un’altra presenza.
Si può sapere chi è?”
Bestemmiò ripetutamente, scaraventando a terra il giornale.
“Se c’è qualcuno che si diverte alle mie spalle gliene farò passare la voglia…”
La porta si aprì.
Gabriele fece appena in tempo a riconoscere la sua vecchia pistola.
Il proiettile lo raggiunse allo stomaco.
Si accasciò sul pavimento, travolgendo nella caduta una poltrona e la sedia.
Morena gettò a terra la pistola, poi restò impietrita, come se stesse fissando il vuoto.
Giorgio raccolse l’arma. Vide che Gabriele era ancora vivo, e che lo stava fissando con occhi appannati.
Fioravanti pronunciò l’ultimo insulto.

Giorgio chiuse gli occhi, poi vuotò il caricatore.
Si precipitò da Morena e cercò di scuoterla.
La donna si mostrò reattiva, rispondendo alle sollecitazioni del giovane.
Uscirono, dirigendosi verso il recinto delle pecore.
Lei prese in braccio un agnellino, che belò garbatamente.
La donna accostò la sua bocca a quella del giovane.
Ne scaturì un bacio tenero, poi intenso, quasi violento.
Si abbracciarono e restarono a lungo in silenzio.
Non pensarono minimamente a fuggire, sapevano che sarebbe stato inutile.

Una macchina era ferma sulla strada sterrata. Il conducente doveva aver udito le esplosioni.
Scoperto l’accaduto quell’uomo avrebbe chiamato la polizia, sarebbero iniziate le indagini, loro si sarebbero dichiarati colpevoli e così via.
Morena e Giorgio erano al di fuori di ogni procedura canonica.
Erano concentrati su loro stessi, sulla loro storia che era iniziata in modo drammatico..
Avvinghiati, godevano degli ultimi istanti di libertà, consci della forza del sentimento che li univa.
Cadde una terza goccia d’acqua.








“PROIEZIONI”


I tuoi gesti sono misurati, pertinenti, e ben lontani dal sembrare artefatti. La voce è piacevole,
con il timbro che si impreziosisce dei cambiamenti di tonalità ed esprime le sfumature dell’umore, e quando diviene roca, rimane tale per qualche istante, poi torna fluida, a conferma che non sei mai statica. Tu ascolti tantissimo, le parole degli altri possono anche scivolarti via, ma non a priori, se non le hai trattenute significa che non ne valeva la pena. Recepisci con il cuore ma anche col cervello, sai che una scelta esclusiva in tal senso potrebbe impedirti di conoscere cose nuove, bloccherebbe il tuo desiderio di arricchirti. Ti piace leggere, e riconosco che lo fai con discernimento, ti irritano le vacue citazioni, lo sproloquio narcisista, i cerebralismi di maniera. E’ interessante il tuo percorso obliquo, trasversale,  che ti conduce da un testo all’altro, seguendo gli anelli di tante, infinite, catene che ti portano lontano. Non ho ancora ben capito se sei più timida o riservata, ma forse non è importante stabilirlo, adoro ambedue gli aspetti. Colpisci, affascini spesso col tuo modo di sottrarti, e allo stesso tempo non ti piace negarti col fare civettuolo, come usano certe donne che non conoscono altra via per rendersi interessanti.  Sprigioni ovunque la tua sensualità, che rimane intensa, presente, non frana nel volgo, non si manifesta col marchio della grossolanità. Valorizzi il tuo passo, ti vesti con gusto, e quando ti va sei anche sportiva. Gli assolutismi ti annoiano, rifiuti la sciatteria. Quando sei in sintonia con qualcuno, accenni ad un sorriso che si dispiega gradatamente, ridi senza apparire sguaiata. Sai essere generosa quando ce n’è bisogno e quando te lo senti. Detesti farlo per piaggeria. I difetti li hai, certo, non ti voglio perfetta, che è un termine a cui non riesco a dare un senso. Cosa sono un paio di macchioline in una splendida distesa oceanica?

Attendo con ansia che tu prenda forma e vita.






“FEEDBACK”

“Roba da non crederci”, disse Avio trangugiando l’ultimo boccone del suo terzo sandwich.”Il giardinetto prospiciente la mia casa di campagna era stracolmo di farfalle, coccinelle e di quei piccoli insetti, che sembrano dei minuscoli elefanti…va bene, non ricordo il nome. Ne ho fatti fuori diversi, poi il giorno dopo sono spariti dalla circolazione. Non ti sembra strano?” Avio bevette il secondo aperitivo e si pulì le grosse labbra con il dorso della mano. Si sistemò in due bande i capelli tinti dai riflessi color mogano. “Sì, è un episodio insolito, che adesso non saprei come considerare”, risposi io, non sapendo effettivamente cosa aggiungere. Seguirono due minuti di silenzio, interrotti solo da qualche mugugno di Avio. Colpì la mia attenzione una forma asimmetrica, indistinta, appoggiata su un albero. Non capivo nemmeno se fosse di origine animale o vegetale. Si mosse, e mi pareva meno uniforme. Puntava verso il nostro tavolino, evitando con cura i passanti. Era vicinissima, Anche Avio se ne accorse. Si trattava di un nugolo di insetti di varie specie. Puntarono su Avio e gli entrarono in bocca. Dovevano esserci anche delle api. Avio emise un gemito, gesticolo in maniera scomposta e si accascio a terrà. Mi chinai, era morto. Degli insetti continuavano a uscirgli dalla bocca…





 “STRADE DIVERSE”        

Qualche giorno prima il prato era troppo morbido per corrervi, ma ora che le pozze d’acqua erano state completamente assorbite dal terreno aveva recuperato la sua compattezza. Un intenso odore di pino proveniente dal bosco vicino punse le nari di Anna, che pensò per un istante di cambiare direzione. Temeva, però, le buche e i rilievi nascosti sotto le foglie, e non poteva certo permettersi il rischio di una distorsione. La domenica seguente ci sarebbe stata la gara podistica, la “maratonina”, che nelle ultime edizioni non le aveva procurato grosse soddisfazioni. Qualcosa non aveva funzionato in quelle circostanze, e per diverso tempo non era riuscita a darsi una spiegazione convincente, attribuendo la causa di quei parziali insuccessi (in fondo una volta aveva anche raggiunto il podio) a svariate ragioni, spesso contrastanti l’una con l’altra. Temeva anche un declino improvviso, quando di colpo finiscono le energie, o perlomeno sono insufficiente a contrastare le avversarie, sempre più agguerrite. Dal semplice bisogno di mantenersi in forma, avvertito intorno ai vent’anni, era passata gradualmente a concepire percorsi sempre più lunghi, fino ad entrare nell’ottica di una competizione sportiva. I consigli di un’amica esperta in materia e i primi incoraggianti risultati l’avevano indotta ad un atteggiamento sempre più professionale, con l’ingaggio di un preparatore atletico (in seguito licenziato perché aveva trovato il suo apporto poco stimolante). Ora si preparava da sola, con tabelle personali, appunti sulla sua forma fisica, ma anche sul suo umore. Anche quando aveva vinto, durante le gare la sua mente era stata attraversata, anche se solo per pochi istanti, da pensieri negativi, da qualche zona d’ombra difficile da scacciare: un breve flash di una relazione amorosa finita male, un secondo dedicato a una persona cara da poco scomparsa…Invidiava chi affermava di correre con la testa completamente sgombra, a lei sembrava un’utopia. Riteneva impossibile lasciare fuori completamente ogni altra cosa e concentrarsi al cento per cento sulla gara. In una competizione si è fondamentalmente soli, perché gli avversari lottano per se stessi. E’ un movimento collettivo fatto di tante individualità. Lei era sensibile anche alle condizioni atmosferiche; col sole forniva delle grosse prestazioni, perché le piaceva muoversi nel caldo e nella luce.

Si sentiva come se fosse in una dimensione dilatata, quasi psichedelica, con la sensazione di affaticamento che si trasformava in un qualcosa di piacevole, con la massa di calore che diventava avvolgente, quasi protettiva. In quei momenti non avvertiva più la presenza della folla assiepata ai bordi della strada. Sentiva solamente un vociare indistinto nel quale le incitazioni si mischiavano con commenti di disappunto e i rarissimi insulti. Quando faceva freddo le dinamiche psicologiche erano totalmente differenti e non producevano effetti positivi.
Anna incrociò un signore brizzolato, che indossava una tuta sintetica e che agitò una mano in segno di salutò. Fece ancora qualche passo in avanti poi cambiò direzione per affiancarsi ad Anna. Lei lo conosceva di vista da qualche mese, ma era la prima volta che le si accostava.
“Salve, possiamo correre insieme?” le domandò.
“Per oggi diciamo di sì.”rispose lei con una punta d’ironia.
“Guardi c’è gente che la sta salutando. Lei è diventata famosa:”
“Non lo sono così tanto, e poi non è il mio primo pensiero. Comunque, un paio di loro abita nella mia zona.”
Il respiro dell’uomo era ora più spezzato.
“Parlare mi aiuta a rompere il fiato. E sa una cosa?”
“Dica.”
“Conoscere un’atleta professionista può farmi migliorare nella corsa.”
“Vorrebbe dei consigli in merito?
“Ne sarei contentissimo.”
“Lei ha delle ambizioni?”
“Mi piacerebbe vincere qualche gara. Certo, l’età comincia a farsi sentire, ma so che esistono delle competizioni per atleti over 40.”
“Ci sono corse per tutte le categorie e per tutte le età.” rispose Anna.
“Infatti, lo sapevo…ma non mi sento ancora pronto….temo di non essere bene impostato quando corro…mi dica la verità, commetto degli errori?”
“Da come batte col piede forse le sue scarpe non hanno un buon impatto col terreno…mi faccia vedere…”

  “Davvero?”I passi dell’uomo risultavano irregolari.
“Bisognerebbe guardare il battistrada o l’intersuola. Ci sono tante cose di cui tener conto.”
“una vera esperta.”
“Si impara con l’esperienza.”
“I primi tempi correvo solo una volta alla settimana, poi ho intensificato e adesso faccio jogging tutti i giorni.”
“Ci tiene tantissimo, dunque, a gareggiare.”
L’uomo emise dei brevissimi respiri, si asciugò il sudore con un fazzolettino di carta, mentre Anna sorrise vedendo che il sole si stava imponendo sulle nuvole. Il verso di un tordo sassello la indusse a girare la testa. In gara non poteve permetterselo, ma durante gli allenamenti era attentissima ai suoni e ai colori della natura.
“Di che uccello si trattava?” domandò l’uomo.
“Di un tordo.”
“Ah! Quando corro non ci faccio caso, sono troppo concentrato su quello che sto facendo. Se mi distraggo ho paura di mettere un piede in fallo, col rischio di farmi male.”
“Se è abituato a correre dovrebbe avere un altro rapporto con la strada, più rilassato.”
“Rilassato? Col lavoro che faccio? E’ per quello che corro tutti i giorni, ho bisogno di scaricarmi, altrimenti…” si interruppe, non teneva il passo di Anna.
“Ma non sarà solo per quello, visto che intende gareggiare.”
“Sa, ci sono dei miei colleghi che lo fanno da un pezzo, e…e mi piacerebbe metterli tutti in riga.
Anna annuì.
“Visto che lei è esperta, potremmo trovarci ogni tanto e correre insieme…”  il viso dell’uomo era stravolto.
“Sì, potrà capitare…”
“Io mi chiamo Paolo.”

“Scusi sa, ma ho bisogno di cambiare passo.”
“D’accordo…”
Anna accelerò, dandogli molti metri, poi si infilò in uno dei graziosi boschetti presenti in quella zona del varesotto.
Lei lo sapeva benissimo, era difficile per un atleta mantenere un equilibrio fra tutte le componenti di una corsa, divertimento, competitività, il bisogno di scaricare delle tossine, ma quell’uomo stava proprio correndo in una direzione sbagliata, e quella non era la sua strada.
Si voltò. Era possibile, guardando tra gli alberi, intravedere un pezzo della strada che aveva percorso in precedenza.
Paolo si era fermato. Stava con le mani sui fianchi e sembrava accartocciato su se stesso. Non era armonioso neanche quando correva ma adesso sembrava che il corpo quasi gli pesasse.
Bloccato da quell’ansia che cercava freneticamente di debellare.
Anna si fermò accanto a un tiglio. L’effetto delle endorfine pareva avesse sovrastato la negatività di Paolo. Fece qualche esercizio di stretching e si inoltrò nel bosco camminando tranquillamente. Le previsioni meteorologiche parlavano di un sole splendente per la giornata di domenica.Sorrise.






 “IN PRESENZA DI EUSEBIO”

Jorge Barreiro si stava gustando un delizioso sobremesa in una pasticceria di Lisbona, quando venne chiamato a gran voce dal suo amico Fernando. “Jorge ,vieni fuori! Sta  arrivando quel giocatore africano, il nuovo acquisto del Benefica.” Aveva sentito parlare di quel calciatore, e di come la sua squadra del cuore riponesse in lui tanta fiducia. Dopo un contenzioso di 7 mesi Il Benefica era riuscito a strapparlo allo Sporting Lisbona, e l’allenatore del club, l’ungherese Guttman, si sentiva orgoglioso per aver effettuato un colpo del genere. Anche la Juventus era entrata in lista per accaparrarselo, ma aveva finito col cedere. Jorge ingoiò velocemente l’ultimo pezzo di dolce ed uscì in strada. Si fece largo tra la massa degli astanti, composta più da tifosi che da curiosi e passanti. Da una macchina sportiva vide scendere l’allenatore del Benefica, due giocatori rappresentativi della squadra,  e per ultimo proprio lui, il nuovo pezzo pregiato del team, Eusebio da Silva Ferriera. Jorge si affiancò a Fernando, ed entrambi restarono colpiti dall’espressione del volto di  quel ragazzo diciottenne. Dallo sguardo si intuiva che fosse timido, schivo, e allo stesso tempo sembrava una buona persona. Dalla struttura fisica e dalle movenze, invece, rilevava un insolita potenza ed agilità. Eusebio pareva smarrito davanti a quel bagno di folla. Fernando, molto più intraprendente di Jorge, si portò rapidamente nei pressi dell’auto parcheggiata, e Jorge seguì il percorso tracciato dall’amico. Fernando era abituato a chiedere autografi a divi del calcio lusitano come Coluna o Joaquim Santana, ma questa era la prima volta che si rivolgeva ad un astro nascente. I due erano arrivati a pochi metri da Eusebio. Jorge scorse Ana, che gli sorrideva dall’altro lato della strada. La ragazza aveva i lucenti capelli neri avvolti in un nastro, ed era, contrariamente al solito, leggermente truccata intorno alle guance. Dava la sensazione di essersi preparata apposta per l’evento. C’era stato un rapido passa parola e questo giustificava la presenza di così tante persone. Jorge provava una doppia emozione. Distava soltanto un paio di metri da Eusebio, mentre sulla parte opposta del marciapiede, una bella ragazza attendeva da tempo che lui si facesse avanti. Con un filo di voce chiese un autografo al talento africano, che annuì sorridendo, poi, incoraggiato dall’amico Fernando, attraversò la strada per unirsi ad Ana. Avvertiva che quella per lui sarebbe stata una giornata memorabile. La ragazza lo accolse con grande disponibilità, manifestandogli appieno tutta la sua contentezza. Jorge rivolse ancora uno sguardo all’atleta del Mozambico, frastornato dall’affetto dei tifosi.


Jorge tirò fuori dalla sua valigetta un fascio di giornali sportivi. Tagliò lo spago che li legava e cominciò febbrilmente a scorrere i titoli e a sfogliare le pagine. Erano tutti portoghesi, ad eccezione di un paio in lingua inglese. Riportavano la prima (disastrosa) amichevole disputata da Eusebio, durante la quale non aveva toccato palla, spiazzato dal primo contatto con il calcio europeo, e poi il primo acuto da campione contro il First Vienna, dove l’atleta era parso trasformato, con uno sfolgorante repertorio di tiri e di assist. Eusebio aveva contrassegnato la sua prestazione con una bellissima doppietta. Seguivano la tripletta al Parco dei Principi di Parigi, al cospetto del Santos del grande Pelè, dove nonostante la pesante sconfitta (3-6), Eusebio era uscito dal campo tra un fragore di applausi, e quindi il primo goal in nazionale, 4-2 al Lussemburgo, la seconda coppa dei campioni, con un’altra tripletta, stavolta contro i fuoriclasse del leggendario Real Madrid. Non mancavano le delusioni, la finale di Wembley persa contro Il Milan, con il suo Benfica ridotto in dieci, la sconfitta patita a Milano contro L’Inter di Helenio Herrera, dove il portiere Costa Pereira, su un campo reso impossibile dalla pioggia, aveva commesso papera storica. I giornalisti sportivi sottolineavano anche le sue imprese nel corso del mondiale del ’66, soprattutto nell’incedibile partita contro gli scatenati podisti della Corea del Nord. Dopo il bruciante 0-3 iniziale, Eusebio si era scatenato realizzando 4 goal e fornendo a Jose Augusto l’assist per il quinto.
Jorge conservava gelosamente tutti questi giornali ed in questa occasione se li era portati dietro per ripassare le gesta del suo idolo, che quella sera stessa sarebbe stato uno dei protagonisti nella finale tra il Benfica e il Manchester, in palio c’era la Coppa dei Campioni del 1968.
Jorge aveva trovato un biglietto tramite delle conoscenze che aveva in Inghilterra, mentre Ana era rimasta a Lisbona. Fernando ora si occupava di questioni inerenti al suo lavoro di meccanico, diceva di non avere più tempo per altre passioni o interessi. Per Jorge, invece, era diverso. Il suo amore per il calcio, con il passare degli anni, aveva assunto nuovi toni e sfumature. Un match di football  presentava diversi aspetti, tecnici, affettivi, etici, psicologici…
Spianata sul letto c’era una pianta topografica di Londra. Jorge la studiò nei dettagli, in particolare sui collegamenti e i mezzi di trasporto. Guardò l’orologio. Mancavano due ore all’inizio della sfida.

 La partita volgeva al termine. Fino a quel momento era stato un gran bel match. Alle folate di Gorge Best, il grande attaccante del Manchester, il Benefica ave contrapposto le accelerazioni di Eusebio e la euclidea ragnatela ordita dal regista Coluna.
Eusebio aveva a disposizione la palla del 2-1, quella della vittoria. Dopo uno scatto bruciante scoccò il suo tiro. Il portiere del Manchester, Stepney, compì la prodezza decisiva, allontando inesorabilmente le mani dei portoghesi dalla coppa,
Eusebio si avvicinò al portiere per complimentarsi con lui, e tutto lo stadio, inclusi i tifosi inglesi, gli tributò un’ovazione. Jorge avvertì una fortissima emozione, più intensa, probabilmente, di quella che avrebbe provato se il suo idolo avesse segnato.
Nei supplementari dilagò il Manchester. Eusebio scuoteva la testa; erano tre, ora, le finali perse. La sua squadra avrebbe ancora preso parte alla coppa dei campioni nell’edizione successiva, ma si percepiva che il grande ciclo internazione della squadra fosse giunto al termine.
Jorge osservava i tifosi inglesi, chiassosi e festanti. Non si era pentito di aver fatto quel viaggio e di aver assistito alla finale. Il suo campione preferito si era comunque reso protagonista di un bellissimo gesto.Prima di ripartire per Lisbona Jorge si sarebbe procurato diversi quotidiani sportivi inglesi per leggere i commenti sull’evento.
Eusebio aveva 26 anni, uno più di lui, ma Jorge non provava invidia per la sua fama e le sue qualità tecniche e atletiche. Nella vita vi sono infinite piste differenti, e lui sapeva che anche quella che sembrava più agevole si presentava dopo delle precedenti asperità.



                                                    ULTIMO ATTO


 Dopo quel match seguirono altri scudetti e coppe del Portogallo per il Benfica. La squadra aveva perso qualche pedina fondamentale, anche raggiunti limiti di età.Nel corso del 1973 Eusebio era tornato il bomber infallibile di un tempo e aveva vinto la Scarpa d’Oro per la seconda volta in carriera, siglando 40 goal nel campionato lusitano. Una serie di problemi al ginocchio rischiava di fargli terminare anzitempo la sua attività. Il campione era emigrato in America, dove avevano trovato ospitalità fuoriclasse in declino o con qualche distrurbo alle articolazioni vessate da tanti, troppi interventi  proibiti dei marcatori avversari. Anche Jorge aveva passato dei guai, finanziari e sentimentali. Il suo rapporto con Ana, che voleva regolarizzare la loro situazione e pretendeva un impegno lavorativo costante da parte sua, aveva subito qualche scossone, mettendo sovente Jorge fuori fase.


Anche lui era finito, provvisoriamente, in america, e lavorava in un’azienda gestita da un suo cugino nel Wyoming.

Era finita una partita dei Las Vegas Quicksilver, un incontro apparentemente come tanti altri, ma in realtà assai significativo, dato che la questa sarebbe stata l’ultima partita di Eusebio, che negli ultimi anni aveva colto dei successi anche in terra americana.
Jorge era volato fino in Nevada per vedere per l’ultima volta il suo idolo. Con gli anni Jorge era diventato più comunicativo, e quando vide Eusebio uscire dagli spogliatoi gli andò incontro, e insieme a lui tanti tifosi americani.
Il campione gli disse che si chiudeva un capitolo nella vita, ma che ne sarebbe iniziato un altro, da commentatore televisivo, in Portogallo.Fu contento di trovarsi di fronte un altro lusitano e lo disse sorridendo al suo fan di sempre.Jorge, colpito dall’atteggiamento positivo del fuoriclasse,  pensò che la sua vita poteva ricominciare, o per lo meno riprendere con altra energia.
“Boa sorte, Eusebio”, disse Jorge.
“Para ti  tamben”, rispose il campione, firmando gli ultimi autografi.







LA SPERANZA

Gli operai lavoravano incessantemente, l’ora della pausa era ancora lontana. Il laminato doveva essere pronto per l’indomani, e i capi non concedevano mai delle dilazioni. Il tetto basso del grande capanno opprimeva i lavoranti, che per via dei vetri smerigliati delle finestre non potevano guardare all’esterno. Disposte per terra, tre lampadine a basso voltaggio sprigionavano una luce verdastra. L’areatore, mal funzionante, non permetteva il necessario ricambio di ossigeno. Su uno schermo di circa 100 pollici appariva l’immagine di uno dei sorveglianti, che ammoniva duramente chi batteva la fiacca o chi tentasse eventualmente di assentarsi. Nell’angolo dello stanzone, degli addetti provvedevano, con l’ausilio di apposti macchinari, al ripristino o alla sostituzione dei pezzi. Uno di questi apparecchi, fornito di una memoria prodigiosa, riceveva e rielaborava le informazioni, dopodichè le varie braccia meccaniche collegate ad esso svolgevano una parte fondamentale nella ricostruzione delle parti mancanti.

Lou Towett era arrivato al limite della sopportazione. Da più di un mese non gli concedevano un giorno di riposo. Lo avevano obbligato a recuperare diverse ore di assenza ingiustificata, dato che non gli avevano accettato i certificati di malattia. Lou sapeva di essere inviso ad almeno due dei suoi superiori, compreso l’uomo che in quel momento sorvegliava i lavori. Si era pentito da molto tempo del voto concesso al “Grande Partito Neutro”, che gli aveva prospettato un lavoro in un ambiente salubre e una casa col minimo di affitto. La campagna promozionale lo aveva blandito, irretito, ma ormai non si faceva più delle illusioni.

La voce acuta e metallica del sorvegliante giungeva distorta, l’immagine divenne meno nitida e dopo un po’ scomparve del tutto.

“Deve esserci un guasto… forse questo è il momento buono…” pensò Towett.

Si tolse la tuta e la mascherina, mentre i suoi compagni lo guardavano stupiti. Lou afferrò pezzo metallico, uno di quelli da riparare, e si diresse verso l’uscita. Si precipitò all’esterno colpendo violentemente, ripetutamente, i due guardiani, che caddero a terra, feriti gravemente.

Towett iniziò la sua folle corsa. Il suo scopo era raggiungere il fiume e passare sull’altra sponda, presidiata dagli “Eversivi”, i forti oppositori del “Grande Partito Neutro”. Sapeva di poter contare su di loro; lo avrebbero protetto e magari inserito tra le loro fila, che era in fondo la sua giusta collocazione.

Gli “Eversivi” avevano sempre offerto aiuto a tutti gli insorti. Lo comprovava il fatto che chiunque li avesse raggiunti non era più tornato indietro.

Towett imboccò una laterale che conduceva in prossimità della zona erbosa che delimitava il centro abitato. Udì delle grida alle sue spalle: lo avevano rintracciato! Accelerò la corsa fino ad un ritmo eccezionale. Le sue gambe, muscolose e scattanti, gli consentirono di distanziare la muta che lo braccava. Arrivato sulla riva del fiume, osservò per pochi istanti la nebbia densa che avvolgeva le acque al punto tale che l’altra sponda era visibile solo parzialmente.

Si immerse. Le urla dei nemici parevano lontane. Lou era sudato, ansimante, ma sentiva di avercela fatta. Gli “Eversivi” erano vicini, molto vicini, vicinissimi…

Dopo alcune ore la nebbia si diradò.

Gli “Eversivi” salutarono amichevolmente gli uomini del “Grande Partito Neutro”, fermi sull’altra sponda. La testa mozza di Towett era stata infilata su un lungo bastone di legno; negli occhi un’espressione di immenso stupore.

Correva l’anno 2052.




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9 Agosto 2006
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