Il vento del ‘43"
A mio padre
Continuavano i bombardamenti, né potevano
ragionevolmente finire se prima non fosse accaduto l’irreparabile. Sentiva
questa convinzione tanto fisicamente da non poterla definire un distratto
presentimento; né tanto meno il frutto di un’immaginazione pure ragionevolmente
prostrata dai trenta giorni di cannoni inglesi. Erano i primi di giugno, e
l’unica altra cosa chiara che sentiva era il voltastomaco per il solo alimento
che riusciva a reperire con facilità: chili di uva passa, nient’altro, che
presto gli avrebbero cariato i denti. La portaerei del Mediterraneo moriva di
fame, o almeno così era per lui. D’altro da mangiare era difficile trovarlo:
qualcuno diceva che le bombe pescavano bene, nel porto, e che c’era solo da
scendere a raccogliere pesci stecchiti sulle banchine; ma la verità era che
sembrava che nessuno credesse davvero che la disgrazia sarebbe finita, magari
di lì a qualche giorno, e bisognasse pensare invece al dopo, a continuare a
curare la terra. Facevano schifo quei divertimenti a festeggiare la morte, non
si accorgevano che quei pesci potevano essere loro, anche domani, anche la sera
stessa: un disgusto peggio dell’uva passa gli saliva con un conato. Nessuno
voleva accudire quella terra, nessuno voleva volgersi a porle un disperato
omaggio. C’era chi raccontava ancora che tanto in fondo agli hangar c’erano
provviste per anni. Nessuno voleva dedicarsi a riprendere a grattarla, a
solleticarla, a ferirla quella terra perché rimarginasse ogni cosa con la sua
polvere buona, con la sua polvere sana.
Si teneva in piedi appoggiato a un muro davanti
la casa e si chiedeva se avrebbe mai ripreso a far pascolare la capra. Ora la
teneva chiusa nel giardino dove era piantato il limone, costruito in pietra
nera alla maniera araba, visto che la stalla era occupata. Veniva a dormirci un
poveraccio. Portava da mangiare la sera e al mattino, quello che trovava, in
genere uva passa, pane, fieno, a quello e alla capra, anche se non gli pareva
cristiano che mangiassero insieme. Poteva stare, nessuno l’avrebbe cacciato, ma
l’importante era che non si cenasse alla stessa tavola. L’aveva sentito alzarsi
al mattino col buio, e rientrare a notte già fatta. Non parlava quasi mai, si
limitava a ringraziare, una o due volte, se s’incontravano. Andava in giro, non
si capiva per cosa, dicevano che era amico dei tedeschi. Ogni tanto rientrava
con qualcosa di involto in uno straccio, ma cercava di tenerlo nascosto. Forse
una mezza stecca di sigaretta o una pistola o del pane. Si dicevano tante cose,
che gli italiani si sarebbero arresi, che molti volevano farlo subito, ma
c’erano due o tre ufficiali che facevano i duri. La capretta la faceva uscire
quando poteva, si vedeva che era nervosa a star chiusa lì dentro. Quella povera
bestia non poteva stare tutto il giorno in galera, sarebbe morta, ma di farla
pascolare libera non gli sembrava proprio il caso. Quando era fuori c’era il
rischio che qualcuno la rubasse, con la fame che c’era. Anche il morto di fame
che ospitavano, poteva mangiarla, così, a morsi. Cercava quando poteva di
scendere al porto, per cercare pane e pasta, ma era diventato molto prudente.
Attraversando il paese i piedi sembrava soffrissero di una dolenzia nuova, che
niente aveva a che fare con le suole di cartone bucate e le pezze di stoffa ai
piedi. Il paese era in buona parte macerie, il castello era un mezzo gigante
ottuso, illeso, ma che sembrava avesse conosciuto un grande spavento; gli
pareva di sentirlo lamentarsi, con un mugugno sordo. Barcollando sentiva per le
strade la debolezza, l’inappetenza verso ogni resistenza concreta; i P-38
seguitavano le incursioni, la notte ogni tre ore. Si sentiva l’antiaerea che
sputava molliche, infine le esplosioni a grappolo. E dalla terra pareva salire,
attraverso un dolore nuovo, mai provato prima, tutta quella tragedia. La
sentiva proprio camminandoci in mezzo. Per fortuna ci sarebbe stato l’onore
delle armi, almeno quello. Si diceva anche che qualcuno quegli ufficiali
irriducibili presto o tardi li avrebbe fatti secchi. Doveva essere il fischio degli
aerei, doveva essere la puzza di fame a far cedere la terra. I piedi sentivano
tutto il dolore della terra offesa. Ci sarebbe stato da tirargli addosso con le
fionde a quei mostri nel cielo. E sputare addosso a chi non ammetteva di
causare solo il prolungarsi della tragedia.
Erano saliti nella casa di campagna, a Gelfiser,
per stare un poco più tranquilli, ma questo non aveva mutato la sostanza delle
cose. Era l’aria acre di bombe che appestava l’isola intera fino a chilometri
di mare intorno. Il mare doveva essere deserto. Il vento capriccioso di
libeccio pure lui incapace di un soffio opportuno non faceva che spalmare il
fetore in ogni cavo. Gli hangar innanzitutto per i soldati. Lì si stava sicuri,
certamente. Si diceva che lì dentro le bombe non ci potevano in alcun modo. Ma
c’era ancora meno aria. L’aria girava e rigirava, sempre più sporca. Ci
sarebbero voluti anni per ripulire, anni di vento, di piogge, di respiri di
gente nuova, che venisse in pace, di nuove esplosioni magari, dei fuochi
d’artificio portati da Marsala. Chiudendo gli occhi percepiva il desiderio più
osceno: fare tabula rasa di tutto, delle case, degli animali, portare il
deserto. I cannoneggiamenti di sostegno sembrava volessero spezzare il sale
della terra, come se l’inferno calato dal cielo non servisse abbastanza a
consumare lo scempio. Chi aveva cominciato? Nessun lavoro dell’uomo, per nessun
tempo, avrebbe mai potuto rimediare a tanto; e l’angoscia per i fossi nelle
strade temeva dovesse annientarlo da un momento all’altro. Forse avesse
eruttato il vulcano come non succedeva da millenni, forse solo così si sarebbe
potuta cancellare quella catena di oltraggi. Il pensiero andava al cono
otturato e pieno d’acqua, specchio di dee ora in vacanza altrove, forse in
America: una possibilità di redenzione che almeno fosse della natura, autentica
e legittima, doveva arrivare. Quello si, avrebbe potuto. Una pioggia di lapilli
dal basso contro fortezze volanti, le avrebbe colpite, sciolte, risucchiate
come nessuna antiaerea avrebbe saputo. Ma l’immagine muta, persino svogliata di
quel lago quieto e anzi pesante per la poca acqua, dissolveva in un momento la
speranza. Una mattina tardi, per caso dietro un terrazzamento abbandonato
proprio lungo la strada di polvere grigia e verde che girava per le cùddie
attorno al lago, con la terra smossa da qualche animale affamato e a quell’ora
già morto, da dietro un muro di pietra venne una figura. Benché i contorni
fossero incerti e l’apparizione fosse durata un momento appena, immediatamente
capì cosa voleva dire: erano quelli i modi per apprendere che il 10 di giugno
del 1943, nell’ultimo giorno di bombardamenti, suo padre sarebbe morto
schiacciato da un tetto crollato per un’esplosione più inutile delle altre.
Solo quel giorno, compiuto quell’ultimo assassinio secondo regole di sacrifici
mai comprese, l’attacco all’avamposto d’Europa sarebbe potuto banalmente
terminare, prova generale di un D-day più degno.
In quel momento preciso si determinò ogni
sciagura: la fine del cataclisma e l’inizio dell’invasione – camuffata per
festosa, blaterata per liberazione - gli fece perdere più che la pazienza,
addirittura il senso stesso della vita, perfino l’onestà nei suoi stessi
riguardi. Al caos che distrugge era seguito il disordine vandalico: c’erano
uomini che sembrava potessero fare quel che volevano e conquistare ogni terra
senza neppure averla vista fino ad allora da meno di trecento metri. Come si
possa passare dalla guerra alla pace, dal ghigno d’odio all’abbraccio. Come si
pretenda di liberare radendo al suolo, rendendo orfani i protetti del giorno
seguente. E come si possa davvero permettersi un sorriso, l’inganno di
un’impalcatura di sincerità. Quella figura dietro al muro portava galloni,
stelle scippate al cielo certamente nel corso di uno dei raid in picchiata. Ma
erano gradi scuri, dello stesso colore della veste, e non poté dirne con
certezza il grado né l’armata di appartenenza. Sapeva di per certo solo che
erano strani, stranieri.
Da allora per rabbia avrebbe cominciato a
considerare le scene altrui come allestimenti di umanità incomprensibili, i
gesti e l’avvicendarsi sarebbero divenute cose perfettamente fraintendibili:
una mano alzata in segno di saluto poteva discorrere come un segnale di stop,
di arresto necessario, urgente persino. Una mano aperta che doveva in origine
chiarire buoni propositi s’era da poco archiviata come il preciso segnale di
uno spettro epocale, da raccontare ai figli se solo fosse stata data la grazia
di sopravvivere. Dietro un riso, magari mezzo schermato, o una mietitura di grano
ci poteva benissimo stare tutto il dolore di questo mondo, e così per un baffo,
un’espressione, ogni testa di morto in stiffelius. E i liberatori rivelarsi più
cattivi della polizia che torturava i ladruncoli, colle grida dei poveri cristi
che spaccavano i muri. Altre fessure, altre fessure ovunque. La scuola privata
di antifascisti in esilio si sarebbe dissolta in una sporazione per gli atenei
di tutta Italia. Il professore di latino e greco avrebbe insegnato in caput
mundi. La sua isola a forma di uovo sarebbe stata dimenticata e lui accatenato
alla terra col vaiolo aviario, butterata da quegli uccellacci di ferro.
Chiunque fosse passato di lì, per un verso o per l’altro, aveva lasciato buchi
e squarci ovunque. Altri sarebbero partiti, avrebbero trovato moglie straniera,
avrebbero conquistato terre più comode da rivoltare, più morbide e grasse di
quella, meno contaminate di polvere omicida. Aveva diritto a scappar via anche
lui, su questo non potevano esserci dubbi.
Ma la paura che del bene si compisse - magari
per sbaglio, per una polvere maligna penetrata attraverso una crepa nella casa
sforacchiata dagli angloamericani - che questa luce rischiarasse quella terra,
che persino quella casa moncata dall’assassinio del padre, assassinio atroce
perché immondamente inutile, inavvertitamente e senza che lui ne godesse per
l’assenza decisa in fretta e male, che quella casa potesse ritrovare una sorte;
che tutto ciò avvenisse quindi rinnegando lui, scandendone anzi la mancanza e
nonostante l’esserci perpetrato per tutto il male di quegli anni, il dolore
inarginabile di quegli ultimi giorni, questa paura spugnosa, ineguale e fitta
di umori ristagnati, lo costringeva all’immobilità. E negli altri, nei fantocci
attorno che pure scemi si dimenavano fingendo di non sapere, non trovava pareri
né vaticini e neppure segnali più scadenti. A chi chiedere tracce?
Ci voleva della buona malta e una cazzuola.
Tappare i buchi anzitutto, poi, forse, partire. Rimanere sembrava un obbligo
naturale, una condizione ineluttabile, una disposizione che rispettasse i vuoti
e i pieni dovuti. Ma in effetti non si era mai spesa una parola parlata né a
favore né contro quest’ordine. Quelli in divisa con scarponi robusti mai visti,
lui ancora con le pezze ai piedi per calze. Quelli ridevano, offrivano
cioccolata dolciastra, insegnavano a tutti a fumare. C’era da ricostruire, da
prendere le vanghe e le zappe, da accettare il lavoro con gli americani, c’era
la possibilità di diventare boss, il capo del magazzino delle derrate. E poi
aspettare che se ne tornassero al loro paese, e approfittare di quello che
avrebbero lasciato: marmellata, burro di arachidi, fagioli in scatola, piselli
in scatola, tutto dentro le scatole, la carne persino, buona. le patate, dolci.
Lui conosceva già qualche parola di inglese, imparava presto: una decina di
uomini erano saliti, avevano preso possesso della loro abitazione di campagna,
praticamente l’avevano requisita; gli avevano offerto del tè con un goccio di
latte. of milk. La madre aveva rifiutato emettendo un mugugno e alzando le
braccia. Erano stati gentili, con quelle facce chiare: sembrava brava gente,
gente educata gli Inglesi. Forse poteva andarsene con loro. A Londra, forse, o
a Boston. Gli Americani sembravano tutti portoricani, c’erano anche oriundi italiani,
della Calabria specialmente, e napoletani. Ma per quanto gentili avevano rubato
comunque la casa e li avevano ricacciati tra le macerie del paese. Ordini del
comando, chi ci credeva. L’edificio di due piani in paese non era stata colpito
direttamente, solo per un miracolo, ma molte schegge erano penetrate sui muri:
forse c’era da temere che una notte crollasse tutto. E senza che una sirena li
avvertisse. Buchi, sempre buchi, ovunque brecce nella materia, anche quella più
lieve che sentiva dentro. Una famiglia di vicini più sfortunati aveva chiesto
di poter stare di sotto, di dormire in cucina, per carità di dio, finché non
avessero ricomposto in fretta le loro macerie. S’erano portati un materasso di
lana con uno strappo e riuscivano a russare. Tornava alla casa, erano tornati
al paese. C’era una mezza epidemia di enterocolite. In casa non c’era rimasto
niente, non c’era neppure la possibilità di tentare di ricostruire qualcosa. La
normalità, ciò che era stato prima, prima di tutto, era talmente rimasta
distorta da non potervi che rinunciare del tutto. La vita gli sembrò una cosa
fiaccata, una canna spezzata proprio sul più bello, che adesso doveva
ripiegarsi a leccare la terra. La madre diceva che il posto di lavoro cogli
americani era buono, avevano fame, doveva approfittare: lui aveva studiato,
aveva fatto in tempo a prendere la licenza classica; era giusto, doveva: glielo
ripeteva tutto il santo giorno, mentre riprendeva a impastare un poco di pane,
finalmente, dopo forse due mesi. C’era farina in paese, a razioni per tutti. La
licenza in quattro anni, col salto della quinta ginnasio, non era cosa da
tutti. Doveva dirglielo, certamente. Bocca che non parla si chiama cucuzza.
Invece sognava ancora di andarsene, di arruolarsi con gli inglesi, di rubare
una divisa qualsiasi e camuffarsi. Ièsser, ièsser, che ci voleva. Al suo posto
non doveva restare che la sua forma vaga, il suo peso scarso, il movimento di
umori ormai troppo noto per valere la pena di continuare a viverlo: avrebbe
preferito fosse quello a decidere per lui, il suo fantasma. Lui pregava di
andare, ma madre vedova, sorella affamata, casa distrutta: come poteva? Del
negozio non era rimasto più niente. Le tremila lire in banca non gliele avrebbe
date nessuno. Forse erano servite già. O forse la banca non esisteva neanche
più. Un buco al suo posto. Certo prendere una barca fino a Marsala, poi magari
cercare Palermo, da lì di nuovo il mare. Proiettando la sua fuga, il ricordo in
découpage magari nel porto di Marsiglia, mentre cercava di fumare su un molo,
l’avrebbe quello solo ossessionato abbastanza da preferire tornare alle notti
di bombardamento, colle sirene che scavavano le vene, ma almeno sentirsi colla
coscienza a posto: due o tre tratti, qualche espressione tipica possibilmente
deformata secondo le convenzioni, eccetera: sarebbe bastato questo purché
incorniciato nei tratti della madre già quasi canuta, sarebbe bastato un suo
cenno per sciupare ogni volontà. Questo bastava per desistere. Per svuotarlo
immediatamente. Per farlo sentire illegittimo alla terra oltre il mare.
Un’altra creatura - più bella, più capace, più impegnativa o semplicemente più
ingombrante - Mastroianni avrebbe detto qualche anno più tardi, a Roma, per un
posto in banca, seduto al cinematografo - avrebbe infranto l’equilibrio
presunto e generato inattesi collassamenti nella materia familiare. Non era
capace di permettersi un capriccio. Poteva lasciare la sorella in sua vece, lei
avrebbe potuto lavorare per la madre, fare andare avanti la casa. Non era
grande abbastanza però, avrebbe dovuto rimandare. Andava bene così, che ci
fosse lei, particella domestica, assai poco indagata ma rispettosa e obbligata
per tributo genetico: sarebbe stata più brava persino di lui; ma solo tra un
paio d’anni, forse tre. Si fosse fidanzata ci sarebbe stato un uomo. Era
leggera quella sorellina, forse vuota, ma il fatto di vederla così simile in
viso gli pareva un conforto, uno dei pochi in mezzo a tante macerie. Il figlio
come replicazione, come maschera o specchio. Il figlio come fantoccio minuscolo
e inappetente. Ne servivano due per forza a quella casa? La prole è una scatola
viva entro cui decidere la propria rigenerazione, ma a volontà: questo o
quella. Altrimenti la prole come vicolo morto, foglia secca non per colore, per
forma, per apparente vigore, ma per mancanza di autentica linfa, mancanza
manifesta a chi della linfa è persuaso di essere autentica fonte. E pur sempre
foglia di un albero, simile all’intera faccenda vegetale. Si, lui era una
foglia secca, che si sarebbe seccata presto e che era meglio si facesse
trascinare dalla prima boccata di vento buona verso Marsala.
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