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Clelia Pierangela Pieri

Le Poesie
di Clelia Pierangela Pieri


Gabbie d'amore

"Pinaaaa! Vai dal capo, ti vuole all'imballaggio e al ritorno guarda cos'ha quella maledetta fustella: si è fermata di nuovo"
Il capo… guardalo lì, quello stronzo, nel suo ufficio a vetri pronto ad impartire ordini. Dio, fa' che qualche volta cada giù da quel piedistallo del cazzo e che quella stupida penna, che brandisce come un frustino, gli si conficchi nel cuore.
Siamo qui, sempre qui. Siamo bestie in gabbia, pronte ai comandi.
Oggi vado a trovare Giorgio, si è tranciato due dita in quella fustella di merda. Ancora non riesce a riprendersi, non lo avevo mai visto piangere prima d'ora.
Lo ricordo come oggi, quel giorno. Quel venerdì era il compleanno di Rosina, avevamo portato lo spumante e Carla aveva preparato la torta alla crema. Era vietato festeggiare compleanni o altro all'interno della fabbrica, era vietato anche nella sala mensa. Ancora oggi è vietato festeggiare e forse anche vivere. Per questo anche se era gennaio avevamo deciso di fregarcene del luogo, del gelo e del tempo che avremmo perso dopo il lavoro.
Nascondemmo la torta e lo spumante sotto una cassetta vuota rivoltata. Fuori c'era un freddo da lupi ma per fare una sorpresa alla nostra amica avremmo scalato anche l'Everest. All'orario d'uscita qualcuno avrebbe fatto perdere un po' di tempo a Rosina nello spogliatoio e gli altri subito fuori avrebbero scartato la torta e preparato i bicchieri per lo spumante. Pregustavamo il divertimento di vedere la gioia e lo stupore sul suo viso stanco, quando uscendo ci avrebbe trovati con una torta per lei e tutte le quaranta candeline accese.
Se lo meritava proprio, Rosina. Ripensandoci, tutti ci meritavamo un poco d'amore.
Una vita di tanta fatica, pochi soldi e nessun rispetto. Ognuno con le sue storie e le sue motivazioni per rimanere ancora qui.
A rifletterci bene non siamo altro che schiavi per amore. Chi per amore d'una vita da vivere comunque, chi per i figli da crescere, chi per una famiglia di vecchi da mantenere ancora e chi per pagarsi gli studi alla scuola serale. Come Angelo, guardalo lì, sempre con gli occhi infossati e la testa vuota di stanchezza e affollata di date da ricordare per i suoi prossimi esami. Noi lo aiutiamo come possiamo, lo copriamo se mangia durante le ore di lavoro e lo svegliamo quando nella pausa pranzo dorme sui cartoni che distende nello spogliatoio per recuperare sonno ed energia. E' un ragazzo di cuore, Angelo, eppure determinato: lui ha deciso che non finirà la sua vita in fabbrica, non si lascerà ammaestrare come noi.
Noi, ricattati per amore.
Quel venerdì non sentivamo la fatica, vivevamo felici l'euforia dell'attesa. Per i corridoi erano strizzatine d'occhio e finta indifferenza per Rosina;  che divertimento leggere sul suo viso la delusione, quando nella pausa ricevette i nostri auguri così formali. Qualche battuta forzata sull'età e poi silenzio generale. Non le chiedemmo neppure d'offrire il caffè  finchè quasi a disagio, come a non volere disturbare, ci sussurrò un "oggi, offro io".
Tutto fu bello, fino a quando  il capo non arrivò urlando "questa sera straordinario per tutti. Solo Rosina, può andare a casa, perché è il suo compleanno" ci guardammo tutti in un lampo di delusione: la sorpresa, il compleanno… "capo, facciamo prima una pausa di mezz'ora e poi riprendiamo il lavoro" urlò Giorgio dalla fustella. La risposta arrivò impietosa: "non se ne parla nemmeno! Chi ha bisogno di una pausa vada a casa e domani non serve che si presenti al lavoro. Ma che avete nella testa, le pigne? Siamo mica ai vostri comodi qui. Qui si lavora!"
E si lavorò anche quella sera.
Rosina tornò a casa triste, quel venerdì, convinta di non essere importante per nessuno di noi.
Giorgio invece lasciò due delle sue dita dentro la fustella, ma non capimmo come e non riuscimmo a vedere molto dopo l'urlo che ci divorò le orecchie e il cuore.  Anche in quell'occasione il comando fu  "Al lavoro voi! Non è successo nulla di grave, l'ambulanza sta arrivando, Giorgio sta già meglio".
Tutti in gabbia, dannatamente addomesticati.





Prossima fermata

"La prossima è Principe, vero?"
"Si, Genova Principe. Ho sentito che deve andare al cimitero di  Staglieno, sa come andarci?"
"Si, prima devo andare da un'altra parte, ma so arrivarci. La ringrazio."

 Potrei dire, a questo sconosciuto, che devo proseguire per raggiungere via Prè. Potrei affermarlo e poi godermi l'espressione del suo viso sgretolarsi alla curiosità, polverizzandosi in malizia per ricompattarsi, infine, al giudizio.  Si, potrei, ma già dal finestrino intravedo Genova e mi allineo lesta verso l'uscita mentre un soffio emotivo mi sconquassa. Scendo dal treno e tra sottopassaggi ed angoli sporchi, sono in strada. 

Nessuna disponibilità, ora in me, se non per i ricordi. Se non per te, Grazia.

La mia Genova… mi prende al petto questo odore che riconosco.
Per vicoli e stradine rientro nel nostro mondo. Un mondo feroce, si, ma che seppe abbracciarci nel rispetto reciproco.
"Ad ognuno il suo mestiere" ripetevi spesso.

Via Prè pare più stretta di come la ricordassi o forse è solo la mia ottica diversa. Tante voci ancora e ancora tante formichine affaccendate nei loro commerci. Non vedo più le porte socchiuse in strada. Non vedo Carmela che da lontano mi sorride con la sigaretta tra le dita e non vedo neppure la Gianna subito rientrare, scorgendomi da lontano, per prendermi una caramella dalla borsa.
Ripenso a te, Grazia, al tuo capo perennemente chino sulla macchina da cucire.

L'olfatto, caparbio, mi riempie degli odori della nostra vita. Erano corti i miei passi, allora. Poi, più lunghi e aggraziati ed io sempre più esposta al pericolo d'un movimento asimmetrico o fuori controllo.
Via Prè era fune tirata ai miei percorsi giornalieri sempre in tensione, sempre a fuggire. Via Prè che non mi apparteneva eppure c'era, e lì crescevo. Da bambina mi dava l'illusione di ricchezza e libertà. Risento nella mente i richiami sguaiati e le radio a transistor sempre accese. La chiesa di San Sisto dove entravo per non pregare. Macerie e case strette l'una contro l'altra nei vicoli.

 Eccomi di nuovo attenta al controllo dei miei passi:  "non troppo a destra e nemmeno troppo a sinistra" dicevi tu. Me lo ripetevi ogni volta che dovevo uscire a fare spesa. "Resta al centro della strada e cammina spedita, non è un posto per passeggiare".  E tu, Grazia, contavi i minuti al mio ritorno.
Il rientro a casa mi era bilanciato da ciò che avevo comprato per te:  un sacchetto col pane,  la frutta o altro. Le mie braccia ingombre mi restituivano la misura giusta al passaggio pericoloso, mi conferivano l'atteggiamento più adatto a farne rete di salvataggio e barriera.  Osservavo i volti, annusavo gli odori incrociando persone che trovavo strane e nutrivo la mia fantasia. Raramente incontravo occhi tristi o colpevoli, erano perlopiù sguardi di sfida, arroganza, era l'ostentazione di una scelta ed io ne restavo affascinata. A volte la sosta mi tentava… ma non potevo, non puoi fermarti quando i passi devono continuare uno davanti all'altro per non cadere e non sarebbe bastato imbracciare involti con frutta e pane. Sulla destra una svolta e a vico Durazzo il mio camminare rallentava, prendeva sicurezza e godeva della distensione.

Quel vicolo mi riportava a te, Grazia, al nostro portone dove, sulla scia che il tuo amore tracciava e tendeva in un arcobaleno, tornavo al sicuro.

 Vico Durazzo e i topi più grandi che abbia mai visto. Un vicolo sempre in ombra e maleodorante, con quei ricci di mare vuoti e gettati ad ogni angolo.

Mi appoggio al nostro portone e guardo in alto, alla finestra. Non ti affaccerai, lo so.
Mi hanno spiegato come trovarti a Staglieno ma tu per me sei qui,  e non ti porterò i garofani coltivati a Sanremo, no. 
Ti porto me,  sono il tuo fiore.
La bambina che incitavi a non aver paura d'attraversare con rispetto quel che non ci sarebbe appartenuto. La bambina che a piccoli passi, sospesa nel vuoto di un tempo non nostro, ha affrontato ogni traversata con determinazione. Lei che, nel tuo sorriso increspato d'amore, ha raggiunto se stessa.

 

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9 Agosto 2006
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