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Luca Butticè
Le Poesie
di Luca Butticè



La ferrovia

Erano già alcuni giorni che, caricando oltre il lecito la sua Fiat 127 verde, mio padre si faceva aiutare da me e mio fratello a compiere il trasloco in quella nuova casa finalmente nostra, che avevamo visto crescere come una pianta, che avevamo osservato ramificare pilastri e germogliare pareti.
Eravamo riusciti a fare tutto da noi, smontando i mobili, caricandoli in macchina, e rimontandoli, spinti da uno strano vortice che ci girava nella testa, una gioia disperata di prendere possesso di un appartamento per il quale i debiti ci coprivano, e ancora di più ci avrebbero schiacciati negli anni a venire.
Due settimane dopo quel giorno dell’epifania del 1986, nel quale il trasferimento fu ultimato, avrei compiuto dieci anni nella nostra nuova casa situata in un quartiere solitario a nord della città, ch’era stato zona di  pascoli e coltivazioni di grano e che, per mezzo di espropri e speculazioni assassine, era diventato uno dei quartieri satellite della città, una di quelle zampacce nere e disarticolate del ragno che Agrigento delinea vista a volo d’uccello.
Un posto spazzato dalle frustate della tramontana per sette mesi all’anno, e arrostito dal sole che ribolle sulle trazzere e sui muriccioli di cemento per i restanti cinque. Il regno del fango e della polvere, a seconda delle stagioni, dove le stanche famiglie monoreddito urbane avevano creduto di ricominciare le proprie esistenze consegnando, a loro insaputa, i propri figli ad un futuro di risse, bestemmie, e bassezze  e sogni insudiciati come le scarpe di noi ragazzini che andavamo gironzolando randagi nella campagna fitta della malerba d’ogni genere. Nel giro di un anno avrei imparato, come un contadino che coltiva il male del mondo, le stagioni di altissime piante spinose che fioriscono di boccioli acuminati e coloratissimi, o di basse pianticelle i cui frutti, simili a minuscoli cocomeri, appena sfiorati sparano intorno una spruzzata di semi neri o, ancora, dei capperi ricadenti dai bordi delle strade che una volta ignorati si sgranano in minuscoli fiori filiformi, e di piccole spighe con le quali facevamo il tiro a segno sui maglioni l’uno dell’altro dove restavano facilmente conficcati. Respiravamo la terra bagnata, i succhi delle verzure selvatiche che si liberavano sotto il nostro passaggio, scansavamo qualche bavosa sanguisuga, riconoscevamo le diverse voci nei latrati dei cani che con la loro indifferenza avevano accettato me, Peppe e Adriano, due fratelli bravi cacciatori di cicale e mantidi, Giovanni, temerario ladruncolo, e Gianluca, povero coglione del gruppo, deriso e continuamente tormentato da noialtri.
Ci dividevano le ore della scuola ed il conseguente pranzo a casa seguito da un’ora e mezza scarsa durante la quale facevamo finta di studiare. Io, ad esempio, mentre i miei genitori s’appisolavano distratti, simulavo un gran premio di formula 1 con delle automobiline disegnate sulla carta dei quaderni di scuola e sapientemente ritagliate, finché alle quattro del pomeriggio sgusciavo via inosservato. Gli altri li trovavo già in giro, pronti a raccattare ai bordi della strada o vicino i cassonetti, qualche bottiglietta di succo di frutta vuota, che ci sarebbe servita come gabbietta dove chiudere le mantidi che Peppe e Adriano avevano già tra le mani, per osservarle un po’ da vicino ammirati dalla grazia dei movimenti dell’insetto, e poi liberarle tra l’erba alta nel ronzare delle vespe.
Una volta, mentre ancora lasciavamo lo sguardo a indovinare il percorso di una mantide ormai nascosta tra la gramigna, Giovanni ci distrasse con un urlo: “Seguitemi se siete capaci!”
“Dove?” fece Adriano;
“Lungo la ferrovia. Laggiù allo stagno dei rospi” era stata la risposta di Giovanni, alla quale rispondemmo incamminandoci dietro di lui sui bordi delle rotaie, da dove la campagna che ci circondava puntellata dai solitari palazzi di recente fabbricazione od ancora in corso di costruzione, e cosparsa di enormi macchie di sulla, ci appariva ancora più sterminata, e dalla quale ci sentivamo attratti come da qualcosa che ci veniva da dentro, un richiamo ancestrale che ci faceva euforici e disperati ad un tempo.
Arrivammo allo stagno, il quale era poco più che un pozza d’acqua fetida circondata da alte canne fruscianti sotto il vento gelido, nel quale alcuni rospi si muovevano svogliatamente. Peppe raccolse un sassolino e lo scagliò verso l’acqua, imitato subito da Giovanni, Adriano e me, mentre Gianluca restava a guardarci sempre più immusonito un paio di passi dietro di noi. La sassaiola scosse le acque della pozza e le vite dei rospi che l’abitavano per un minuto o due, dopo di che ci eravamo già stancati di quel gioco.
Risalimmo al contrario la ferrovia fino a fermarci in un punto in cui sopra le nostre teste passava il nuovissimo ponte della strada statale, sotto il quale si apriva un esteso pianoro. Fu Adriano per primo a mettere su una rotaia una grossa pietra, ed una ancora più grossa ce ne aveva messa Peppe poco più in là. Io diedi il mio contributo mantenendomi alla pari con i due fratelli, e Gianluca ormai singhiozzava guardando Giovanni poggiare subito dopo i nostri sassi, un mattone forato. Sapevamo che al passaggio del treno mancavano pochi minuti. Gianluca, pieno di lacrime, ci implorava di togliere i sassi dalle rotaie, e quel mattone che diceva avrebbe fatto deragliare il treno, ma le nostre risate lo zittirono.
Voltandoci vedemmo sopraggiungere il treno il quale, urlando e sbraitando sulla linea ferrata, ridusse in polvere i sassi così come il mattone, incitato dalle urla e risa eccitate che cacciavamo dalla gola, indifferenti alla tramontana che, schiaffeggiandoci, ci arruffava i capelli e ci faceva seccare il muco impastato di polvere sotto il naso.





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9 Agosto 2006
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