Circolo Culturale il Gattopardo

HOME PAGE IL GATTOPARDO POESIE RACCONTI DIALETTALI CONCORSI LIBRI GLI AUTORI NEWS ARTE INFO CONTATTI LINK

RACCONTI
acquamara
Le Poesie Dialettali
di acquamara



Quell'altra me

Credo che tutto sia cominciato a Cecina, in primavera. Guidavo da ore, solo una lunga tappa a Firenze, e dovevo parcheggiare in fretta, approfittando del colpo di fortuna di un posto libero nella via centrale di quel paesone congestionato quasi quanto il capoluogo. Freccia e retromarcia. Niente da fare, non entra. Riprovo e mi accanisco sul cambio mentre qualcuno dietro comincia a spazientirsi e suonare. Provo ancora, ma niente. Suonano tutti adesso, metto la prima e mi allontano dal centro in preda all'angoscia. Al diavolo l'appuntamento preso al volo col telefonino, al diavolo il capo che mi tiene il fiato sul collo. Al diavolo la lunga notte, i quattrocento chilometri che mi aspettano al ritorno e la riunione di domani sera in cui mi si chiederà malignamente di relazionare, di fronte ai colleghi, le visite della settimana. Al diavolo il traffico e il parcheggio in centro.
La verità è che non ricordo come si mette la retromarcia, e mi accanisco sul cambio come volessi incastrare in un puzzle il pezzo sbagliato. Osservo lo schema sul pomolo, cerco di far mente locale, provo come fossi un bambino alle prese con un giocattolo complicato. Bisogna sollevare una leva e spingere in avanti, non premere e tirare indietro come sto facendo ora, col rischio che mi rimanga in mano. Ho questa Scenic da più di un anno e all'improvviso non ricordo come si mette la retro. Sono sudata, e ho paura.
Lo ricordo come se stesse accadendo adesso. Lo smarrimento e l'angoscia sono gli stessi. Anche se adesso non ho nessun problema con la retromarcia, né con nient'altro che abbia a che fare con la guida. Solo che sono qui, mezza impantanata sulle Torricelle, è quasi buio, e non ricordo come ci sono arrivata, né perché.
C'è El Frescura accampato a pochi passi, nel prato accanto ai ruderi delle mura antiche. Mi guarda, mi fa ciao con la mano, e anch'io gli sorrido, un po' impaurita anche di lui. Quante volte ho riso, giù in città, dei suoi numeri di barbone matto, quando segue le ragazze zitto zitto e appena è abbastanza vicino prende a gridare parole incomprensibili. E ride dello spavento procurato alle sue vittime colte di sorpresa. Le veronesi lo conoscono e ridono, ma le turiste scappano atterrite e a ridere sono solo i passanti e chi lo conosce un po' meglio gli si avvicina con qualche spicciolo "va a berti un bicchiere, Frescura" e lo guarda andar via contento.
Si avvicina, ha un'espressione preoccupata. Sembra preoccupato per me. "Cosa fai qui a 'ste ore? Non sono posti da signore 'sti qua"
"Ha ragione. Ma non so come ci sono arrivata, lei mi ha vista arrivare?"
"Dammi del tu, bambina. Ce l'hai una cicca?" gli faccio sì con la testa. Lo invito a sedersi ma lui non vuole "Per via della puzza" risponde al mio perché, ma insisto e alla fine mi si siede vicino. Ci guardiamo, non so chi dei due sia più incuriosito dall'altro. "Mi hai vista arrivare?"
"Sì"
"E da quanto tempo sono qui?" Si concentra, guarda il cielo e poi, convinto: "Saranno tre o quattro ore, bambina, perché?"
Perché non mi ricordo niente, ma questo lo penso solo e lui sembra sentirlo, il mio pensiero, e dice sì con la testa e ha un'aria contrita come se fosse colpa sua.
Non so perché mi ritrovo a parlargli di me e di come la mia vita mi somigli poco. E di quando la sera fingo di guardare la tv e invece il mio sguardo fugge di lato, fuori dalla finestra, verso il cielo.
Scapperò via un giorno. Via da qui, vestita come un uomo, con i capelli tagliati corti corti. "No, i capelli no". Mi sorride El Frescura, e allunga il braccio come per carezzarli, i miei capelli, ma subito si ferma e rimane sospeso quel gesto, un fantasma di tenerezza tra il suo sorriso e il mio.
C'è un'aria strana qui. Qualcosa d'irreale, come a star fuori dal mondo. Nemmeno il telefono prende. Devo andare, a casa si staranno preoccupando. "Ma tu dove dormi?" Scende e mi fa cenno di seguirlo, dietro alle mura: la sua casa. Una coperta, gli avanzi della cena, quattro sacchetti pieni di non so che. "E se piove? E se fa freddo?" Lui fa una smorfia e ride. Devo andare. "Ma se ti cerco ti ritrovo qui?" Non risponde, sorride. Devo andare, è tardi davvero.

Matteo è abituato ai miei ritardi, "ma almeno una telefonata, Giò... ", non mi rimprovera nemmeno più, lui lo sa cosa detesto nei legami, questo dover lasciare mille tracce come Pollicino, questo dover sempre avvertire di tutto, questo render conto della mia vita senza mai condividerla davvero. "Che ti è successo?"
"Mi sono persa, lo sai che mi perdo nella bassa, e poi il telefono non prende. Insomma non potevo avvertirti, mi dispiace."
Sorride Matteo, anche se non vorrebbe. Prendere o lasciare. E il pensiero di lasciare o di essere lasciato lo atterrisce. Non ne abbiamo parlato mai, ma io lo so. Morirebbe se me ne andassi, e questo atterrisce me. Perché me ne andrò prima o poi, ma questo lo so io soltanto.

Mi piace uscire prima dell'alba. Di solito prendo per Verona est e mi fermo a far gasolio in tangenziale. Adoro la strada deserta e l'aria fosca del cielo. Amo la musica che accompagna i pensieri e quel senso di pace che mi ripaga della levataccia e del sonno, quando la sventatezza o il troppo zelo mi spingono a prendere un appuntamento lontano troppo presto al mattino. Potrei partire la sera prima, ma preferisco così. Prepararmi con calma, vestirmi al buio e chiudere la porta piano, abbandonando un bacio scritto in un postit sul frigo. Caricare bagagli e campionario fanno parte di un rito che visto da fuori ha un ché di malinconico, ma non lo è mai davvero.
Stamattina è più presto del solito. Prendo per le Torricelle, ho una borsa in più, e uno zaino pieno di cose buone.
"Ti ho portato la colazione" Sorrido al suo sguardo che sembra solo un po' sorpreso. Lui si mette a sedere e non dice niente. Deve credermi matta, forse lo sono davvero. C'è il caffelatte caldo nel thermos, e le nastrine e un vasetto di nutella. "Senti ti ho fatto le lasagne, per pranzo, e qui dentro trovi altre cose da mangiare, non sono un gran cuoca, ma ci provo" mi guarda ma non dice niente, non sorride più. "Ah, ti ho portato anche un cuscino e... sì insomma vedi tu qui in questa borsa se c'è qualcosa che ti va... E le sigarette, ti ho comprato delle sigarette. Torno tra qualche giorno, ora devo andare a Prato, ma torno giovedì" e mi avvicino come fosse normale carezzargli i capelli. La sua fronte accoglie la mia mano, e il gesto dolce, quasi un impercettibile venirle incontro e il suo sguardo sospeso tra contentezza e malinconia mi accompagneranno per tutto il viaggio. "Come ti chiami?"
"Giorgia, Giò, e tu?"
"Frescura"
"Sì, ma il tuo nome vero?"
"Giovanni, Giò" ridiamo. Eccolo, il segno: Giò, come me.
"Tornerai?" e io gli grido sì, torno presto, mentre mi allontano a malincuore.Vorrei rimanere lì con lui a parlare. Ma è sempre troppo tardi. Devo andare.

Chissà come accadono le cose. Mentre una me disciplinata e attenta a chilometri e compiti si avvia al dovere, alle cose da dire e a quelle da tacere, a gesti misurati, a trattative condotte ad arte e a firme su contratti come estreme conquiste, c'è l'altra me che si sveglia di colpo e tira il freno a mano. C'è una me soddisfatta che pensa alle vittorie e se ne compiace e ce n'è un'altra che se ne dispera. Quell'altra me, quella che scappa. Quella che osserva il cielo e prova pena per se stessa e per l'umanità vorace che la circonda e somiglia a quell'altra, l'altre sé che non ama. C'è una me che ogni giorno si butta nella mischia per essere felice e un'altra me che lo sarebbe con niente e s'innamora mille volte al giorno di chiunque sia in grado d'insegnarle una via che porti al sogno. E' una me con i capelli corti, che si veste da uomo perché la vanità non sia d'impiccio, e la bellezza, dentro, non conosce trucchi. Una che ha appeso a un chiodo il sacco dei colori e della voglia di vedere il mondo, una che presto sarà troppo tardi per andar via, perché gli anni e i sogni hanno scadenze che non si possono ignorare.Una che fallo adesso, Giò, fallo adesso!

Sorriderà Matteo, seduto sul bordo della vasca? Sorriderà piangendo, prendere o lasciare. I miei capelli dentro al water, ciocca dopo ciocca, con lo scroscio dell'acqua a inghiottire ogni mia vanità. Non capirà, come potrebbe? Lui le subiva queste mie sciocchezze, senza capirci niente, sperando solo che passassero in fretta. E le domande che mi farà? E "tornerai?", "mi chiamerai?", "quando ti rivedrò?". Come farò a rispondere e rimanere seria? Come farò a spiegargli senza ridere o piangere o chiudere gli occhi?
E a Giò come farò a spiegare che ci sono momenti che ti aprono il cuore e persone che senza saperlo ti indicano la via? "Vuoi venire con me?" questo gli chiederò. Ma lui mi guarderà senza capire. O forse capirà, e "Dove vuoi che venga? Sono un vecchio, ti sarei di peso" mi dirà.
Avrò una maglia larga e i pantaloni pesanti, avrò i capelli corti e la faccia pulita. Avrò uno zaino pieno di colori per colorare i marciapiedi. E me ne andrò. Sì, io me ne andrò, prima o poi.













Domenica e il Destino


Se davvero fosse nata di domenica forse il suo nome non le sarebbe pesato tanto. Ma Nica era nata in una brumosa notte d'autunno, nove novembre, segno scorpione ascendente leone, ore ventitré e cinquantasei. Sabato. Quattro minuti ancora e sarebbe stata baciata dalla fortuna, che sempre sorride a chi nasce di domenica. O almeno questo sosteneva sua madre.

A giudicare dalla fatica con cui era venuta al mondo, Nica ce l'aveva messa tutta per tirar tardi almeno fino alla mezzanotte, ma poi il dottore s'era preoccupato e l'aveva fatta nascere in fretta e furia col cesareo, prima che qualcuno ci rimettesse la pelle, dopo quindici ore di travaglio, a pochi istanti dalla buona sorte. Quando sua madre si riprese dall'anestesia non ne volle sapere di rinunciare a darle quel privilegio fasullo: nata domenica, nata fortunata. E in comune la fece segnare così: Domenica Dellepalme, che ahimè questo era il cognome, nata a Verona il dieci novembre millenovecentosessantotto. Domenica.

Ma il destino non si lasciò ingannare tanto facilmente. Anzi, parve accanirsi sulla piccola fin dal primo giorno, per quel peccato originale da scontare per il resto della vita: l'inganno della sua data di nascita.

Dalla sua macchina, in coda al semaforo, ogni mattina Nica osservava la figura curva del vecchio. Ogni mattina si faceva la medesima domanda: quanti anni potesse avere, da dove venisse e se davvero fosse invalido e malato, come la stampella e l'espressione sofferente facevano supporre. Si sentiva stringere il cuore a vederlo così, vecchio e malfermo sotto il sole di quel luglio infuocato. Ma quella mattina, nella furia di un violento acquazzone, lo cercò appena con lo sguardo senza aspettarsi di vederlo comparire tra le auto, e nemmeno pescò alla cieca dalla borsa qualche spicciolo da passargli dal finestrino. Fissò lo sguardo sui rigagnoli d'acqua sul vetro, lo fece scivolare sull'asfalto tetro, per poi levarlo alla tristezza del cielo. Pensò che quel tempo le somigliava e si sentì piovere dentro, provando una specie di pena per se stessa, e poi di rabbia per l'autocommiserazione che l'aveva presa.

Stava seguendo quei pensieri quando il vecchio, zuppo come se fosse appena emerso dall'Adige, bussò al finestrino dalla parte del passeggero. Al gesto di cercare gli spicci replicò "fammi entrare". Nica gli aprì e lo fece sedere mentre il semaforo si fece verde e qualcuno dietro prese a suonare.

"Vai ora. Via, segui l'argine senza girare per il ponte San Francesco" le disse il vecchio.

"Perché?"

"Perché stanotte Maria ha avvolto la sveglia nel calzino e la ha nascosta in fondo al cassetto".

"Perché?" chiese lei senza capirci nulla.

"Perché il ticchettio era forte e non la lasciava dormire" rispose lui con sufficienza.

"La sveglia nel calzino? E poi chi sarebbe Maria?" Nica sembrava divertita più che sorpresa dalle parole del vecchio. La sorpresa la riservava a se stessa, alla semplicità con cui lo aveva fatto salire, al modo remissivo con cui ora ne seguiva i consigli come fossero ordini.

"Maria è la moglie di Carlo. Lei ha messo la sveglia nel calzino e lui non si è svegliato in tempo, ha perso la corriera ed è dovuto venire fin qui in motorino. Da Marzana, con questo tempo, poveraccio" e indicando un signore grasso e traballante sul motorino aggiunse: "Ora lui gira verso il ponte, ma tu non lo seguire, segui l'Adige".

"Ma perché? Io devo andare al lavoro, devo attraversare il ponte!"

"Perché? Perché Giorgio non ha frenato, in Via Puccini, prima del dosso di rallentamento, cara ragazza".

"E allora? E chi è questo Giorgio, adesso?"

"E allora la coppa dell'olio che si era incrinata sul dosso ora si è rotta del tutto, e una gran macchia nera ha coperto l'asfalto, e Giorgio è quello che sta nella macchina che perde olio. Tira dritto, vai!"

Dopo un attimo di esitazione Nica tirò dritto, senza capirne il perché, mentre l'uomo del motorino, quello che il vecchio aveva appena indicato chiamandolo per nome, girò a destra verso il ponte. Le ruote gli slittarono su un'enorme pozza d'olio che s'era appena allargata sotto all'auto davanti a lui. L'uomo del motorino cadde a terra, l'auto che sopraggiunse al posto di quella di Nica, girando per il ponte slittò a sua volta sull'olio e non poté evitarlo, proprio come non avrebbe potuto farlo Nica se non avesse tirato dritto, e lo prese in pieno. Ma questo Nica non poté vederlo. "Mi farai far tardi al lavoro. Dove vuoi che ti accompagni?"

"Da nessuna parte, vai dove ti pare. Comunque non ti conviene tornare indietro ora e attraversare il ponte: c'è stato un incidente". Nica si girò a guardare e in effetti vide una gran confusione all'inizio del ponte, così decise di proseguire lungo l'Adige fino al ponte successivo, senza pensare troppo al ritardo che avrebbe accumulato.

"Come ti chiami?"

"Tino, e tu?"

"Nica".

"Non Domenica?"

"Sì, proprio Domenica purtroppo, è una lunga storia, ma a dire il vero il mio nome non mi piace".

"Questo lo so, non ti è mai piaciuto" sorrise il vecchio. E non aggiunse altro in risposta allo stupore della ragazza. Nica imboccò la tangenziale, uscì a Bussolengo e arrivò al parcheggio del centro commerciale in cui lavorava con qualche minuto di ritardo. "Ecco, ora il direttore mi spellerà viva"

"Macché – la tranquillizzò Tino – il tuo direttore è imbottigliato nel traffico, dopo l'incidente sul ponte. Vai tranquilla, nessuno si accorgerà del tuo ritardo, oggi è il tuo giorno fortunato, mia piccola Domenica."

Per tutto il giorno Nica pensò al vecchio. Ripercorse col pensiero ogni minuto, da quando l'uomo era salito in macchina a quando ne era sceso. L'ordine di tirar dritto sul Lungadige, l'incidente sul ponte che quella buffa coincidenza le aveva evitato, la storia della sveglia nel calzino e quella della macchia d'olio, il fatto che Tino conoscesse il suo nome e che sapesse addirittura che il direttore era in ritardo. "Nica sta a Domenica come Tino sta a Destino" pensò, ridendo di quel pensiero "E se fosse venuto da me per riconciliarmi con la buona sorte?" Seguendo questi pensieri non si stupì di ritrovare il vecchio ad aspettarla nel parcheggio, alla fine del suo turno, né pensò di non accontentarlo quando l'uomo le suggerì di non prendere la tangenziale e proseguire per la statale 11.

Alla fine della Strada Bresciana lui le chiese se fosse possibile fermarsi a comprare le sigarette nella tabaccheria all'inizio di Corso Milano. Nica accostò, scese, entrò con lui e con una strana euforia ordinò un pacchetto di Diana e un gratta-e-vinci. Pagò e si fermò sulla porta a grattar via la patina argentata dal biglietto con una moneta.

Occhi pesti, voce agitata e roca, mano tremante armata di taglierino, il ragazzo irruppe nel negozio, intimando al tabaccaio di dargli soldi e valori. Con un gesto repentino prese con il braccio sinistro la spalla di Nica, puntandole con la destra il taglierino alla gola, proprio mentre lei, tutta presa dal suo biglietto e senza accorgersi del pericolo, si voltava raggiante verso Tino, gridando "Ho vinto!", come per buttargli le braccia al collo, ma in realtà buttando il suo collo contro la lama tagliente.

Preso alla sprovvista il ragazzo affondò con più forza il taglierino, poi la spinse a terra e fuggì via. La gente prese a gridare, mentre l'urlo di Nica si perdeva in un orribile gorgoglio, e in quella confusione Tino sì chinò, le fece un buffo sorriso, le sfilò di mano il biglietto vincente, zuppo di sangue, e glielo appoggiò sulle labbra sussurrando "Oggi è il tuo giorno fortunato. Congratulazioni, mia piccola Domenica".






Tutti i loghi, I marchi registrati di sito e le opere inviate sono proprietà dei rispettivi autori.
Ogni altro materiale pubblicato è proprietà dell'Associazione Circolo Culturale IL GATTOPARDO.
9 Agosto 2006
 IL GATTOPARDO © 2006 - 2009                                                                                                                                                                                 circoloilgattopardo@yahoo.it