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POESIE
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Fortuna Della Porta
I Racconti
di Fortuna Della Porta



inedito


Mare nostrum



Ho vinto tutti i mari per arrivare
a questo tramonto di distanze.
Nel nulla dei giorni, coi mesi e gli anni
che precipitano in avanti,
riesco a pensare che solo la morte
tiene il passo dall'inizio alla fine.
Eppure non mi muovo. Non tocco nulla.
Nemmeno la tua mano.
A me basta guardarti la radice del polso
per sentirne il battito e il rantolo.
La vita tenebrosa non ha bisogno di parole.
Lontana da esse, mi crescono
tra i labbri le medesime rughe e le paure
che tremano tremano nelle tue pose rudi.
Vedo nascere dal segreto le vocali
del tuo luogo oscuro che come me urla
sanguinando al tempo che si chiude.
Questo ho imparato dal mio tacere:
le solitudini sono tutte ferme come il marmo
e non si trova una frase a descrivere l'inesprimibile.
Non servono le sillabe, bastano
gli emboli del cuore nella mia e nella tua sera
gettandoci la rete come pescatori
abdicati al silenzio come pesci.


Mare amaro


Mi godo ancora
certe volte sul mare di età remota

la brezza mi gira intorno
con freschezza materna
e il tramonto sospeso sull'assonnata risacca:
cespugli e braci ci si versano
E come sempre, da quelle antiche onde,
dalle amatelasciate terre in poi,
nel mio ramingare
balugina ancora l'occhio di perla
di un pesce sgranato d'azzurri
sotto le agavi scoscese
fino al mio corpo acqueo
solo e in attesa di deporsi.
Laggiù la terra s'incrosta di verde
intriga spini e ricordi
e conserva la rotta alla mia voce assolata.
Debbo fidarmi. Debbo appartenere
ora che la direzione è quella della notte.
Oggi quel mare è così lontano.
Si confonde con l'allampanato grigio
dei miei capelli, ormai così distante
così distante
da sembrare la serpe di questo asfalto cenere,
coperto di passi decidui come la mia speranza.
Nessun ritorno è perfetto:
il bitume delle strade affannate
appartiene ormai a un altro mare
allo spazio subìto che mi tiene
presso il Tevere che con me va alla fine.


Mare greco

Sul mare greco al riparo del porto

dorme un caicco

e il caicco sembra una noce

tanto è limato dal sale e dal sole
È così vecchio che oramai
serve solo i suoi sogni
Ma sulla poppa accanto alla gomena

è stesa una dea di marmo e di avorio

e ne è invaso il mare
perché, intorno al caicco,
brilla un pallore di pane.
Il caicco, un tempo, alzava le vele
e inseguiva la storia
A una guerra si avviò
si vede dalle sconnessure
che ha sostato sotto le mura di Troia
Il caicco una volta
sbatteva le vele nell'ansa della marea
quando andava ad incontrare
tesori e guerrieri
Chissà quante vicende sono pressate
nei suoi fianchi esulcerati
Ora, nell'acqua verdebianco
intorno al vecchio caicco in disarmo
che ne ha viste di cotte e di crude,
si bagna esausta l'annosa avventura
e perché non pure una dea
con scettro e corona?



Le rotte del Mediterraneo


Due occhi straripanti
sulla cute abbrunita
iniettati di sangue e speranza
occhi bianchissimi disidratati
gelati d'orgoglio e disperazione
immobili e ardenti come coralli
appena scampati al naufragio
appongono su di me
un atto di accusa
Rovesciano
dallo schermo inerte
sulla mia coscienza
il mare dissalato
del sonno occidentale


Mare inquinato



Ora l'acqua ha espettorato malato
e anche la mareggiata di ieri
traboccava ruggine sul margine
della rena strinata, raggiunta dal silenzio.

Nell'impervia terra del cactus
sul Tirreno che inarca alla sera
la sua vampa di rossa lava
e l'umore del suolo è irrequieto e smodato

anche qui, sommesso,
un gocciolio di veleno ubriaca il vento.
Immagino, su questa punta costiera
lastricata dal rimpianto di antiche consonanze,

un Morfeo così adombrato
che verrebbe a prendere di buon grado
non solo me ma Palinuro
e Scilla a serrarci le porte

ora che quaggiù si semina da stranieri
l'erba infestante che abbranca
le flottiglie dei pesci
e scioglie il fiocco che strascica

l'anima all'incontaminato.
Mi sento persa. Quasi non respiro.
La sorte dell'idillio è segnata
e il mito che qui abitò rinuncia all'approdo

nei porti crestati di pece,
neri e perduti prima buio
come sorte spaccata e vino fradicio
Ora che il mare non è più il mare

la poesia non trattiene il senno delle cose
e un'altra solitudine ci occupa.
Mi aspetto che prima o poi
anche l'iride caraibica di Walcott

compresa di Montale e Quasimodo
valuti di accomiatare l'illusione
di una coperta spiccata quaggiù
che col suono dei fiori faccia brezza.


I confini del mare


Parliamo tranquillamente
della linea del fra –acqua e spiaggia-
che ci è data per strada. Essa
è sempre in guardia. Se un passo più risoluto
smania a misurare quello che vale,
incatena le caviglie col peso dei muscoli
e quando il tremendo sussulto del sangue
vorrebbe spingersi in alto, dove la rosa
somiglia al giglio e il sogno al possibile
istruisce a suon di busse che il volo è radente,
soggetto a gravità. Da tempo ha segnato
a fuoco in ogni fibra che la vita è caduca
e l'umano respiro plana solo nella morte,
pertanto la direzione è unica, diritta e barricata.

La linea del fra –acqua e spiaggia-
Si stende tra seducenti infiniti
di liquido e suolo spalancati inattingibili
per chi non fa che durare nell'ombra.
Meglio allora attenersi all'andatura,
meditando che le illusioni come gli squali
abitano gli abissi e che un arancio, casomai,
addolcisca la bocca quando l'arsura si fa sentire.

La linea del fra –acqua e spiaggia-
è il cordone ombelicale della madre Gaia
che si proclama magnanima, la prigione
della carne putrescente, le ascese senz'ali,
ciò che chiedemmo e mai realizzato.
Sul cuore della terra che ci parve compagna
Abitiamo solo il nostro alito.

È in questo modo che la linea del fra
-acqua e spiaggia- vuoto e vuoto da ogni lato
divora ogni volo, ogni lingua.


Mare malato


Non trovo nulla che sia davvero innocente
Il latte così bianco e perfetto si rapprende
E l'architettura di un sorriso si tarla prima o poi
Il mare del cuore, il mio in primo luogo,

è una vocazione dolorosa e oscura
che imprigiona ogni luce in anse buie.
Fra il nascere e il morire prospera
Il vizio della naturale imperfezione

Così anche una rosa fu violata dall'ape
e un uomo crocifisso all'imbocco
della storia ove continua a crepitare

il solito sole bruciato. La barbarie dell'uomo
non intende l'estate, nel mare assiderato
dell'insanabile sostanza degli impulsi.


Mare perduto



Ogni viaggiatore ha il medesimo piglio impetuoso
di una barca che risale la corrente tra le schiume
La chiglia saetta i riverberi dei fulmini
Mentre spacca l'acqua come solcasse i campi
Anche il piede fiero sospinge le sue ambizioni

quasi fossero il gambo della stella sincera
che gira la notte sontuosa priva di peso.
La felicità di andare ai propri talenti
è il segmento incendiario della festa iniziale
prima che l'inganno diventi la zavorra

di una casa costruita in fango di palude.
Vivo piangendo i miei e i tuoi miraggi
che hanno perso la voluttà di compiersi
sognano che un raggio torni a ridarci fervore.
Nessuno sa dove ormeggiano i progetti inconclusi

E quando comincia la tristezza
a indicare i cimiteri delle attese del mondo.
L'oceano consumato del disincanto lavora
Ai polmoni come il fumo con l'incallito fumatore
fuori lasciando l'involucro stremato e la rinuncia.



Sconoscenze


Le cose poi si fermano come una lettera d'amore
dimenticata in un libro di ricordi sbiaditi.
Occhieggiano scure agli scaffali della mente
o muoiono come un fiore o un suono che va a sfinire.
Le cose si stagliano a noi come pagine vuote
subdoli schianti sulla livida eclampsia dei vivi
che scava sotto l'apparente mantello una marcita.
Le cose durano nel mare di un letargo vile
affine alla zana della falena nell'ambra brunita
noi in preghiera slabbrati a valicarne il confine.













Intrisa

Amore, ti ricordi
quando cademmo nei giorni
e nelle mutue parole
e l'impronta della luna
capriolando
colse gli occhi opalescenti
sulle tue cosce vitree
E il grillo che si sgolava
a perdifiato, la lucciola
concentrica e bighellona
le strade senza peso
gli spazi conclusi
nei nostri perfettissimi piedi
e il vortice del sangue
nel suo serpente di rosa
i sensi scoppiati dal soma
le cascate di tutte le luci
la nostra intangibilità
e il sincrono volo proteso
a sfida e onnipotenza.
Amore, ti ricordi
quando si persero i giorni
come s'ammutò parola.

da Io Confesso, Lepisma ed. 2006








D'amore e di sensi


… io ti contavo le mandorle dei denti
dischiuse su prati di parole
e la menta degli occhi
la vaniglia delle mani
mentre ballavo l'età dell'amore:
io e te
al tempo della zolla che riga il gelo
quando la gemma apre il ramo che la porta
attraversammo solerti e insonni
il voto dell'oracolo
e la linea del confine.
Così il mio fiato, la mia vita
uscita da se stessa e viva di altro sangue
di altra stregoneria,
imparò a librarsi dove titani alati
sorreggono la seta degli amanti:
io e te
disfatti allora in musica, in colori
-aria, fantasmi, sogni-
acquietammo i cieli turbinosi
e l'acqua recalcitrante
del nostro speziato fiume
e gli argini cedevano
e le dighe ribollivano
sotto le reciproche dita
che posero in altro ordine il mondo:
io e te
coi sensi desti ma invero inconsapevoli
ripiegati, bruciati, infine consumati
nel cuore di ogni notte –tutte le notti-
fummo ad un passo dall'eternità
-vento, afa, tramonto, sisma impetuoso,
come ci mutammo, cuore mio?-
Prima della fine, prima di cadere,
orgogliosi, onnipotenti, del tutto ciechi
ci abbagliammo di piegare la sorte.

Sfogliami come un fiore,
ardimi, ardimi come le stoppie
scrollami e disperdimi nelle correnti
o in una nube appisolata sul finire del cielo
perché voglio mescere i tuoi pensieri
nella conca della tua anima
di latte e miele
quando smetti di esserci.
Ecco, indosso un abito di fuoco
e lascio fluire i capelli
come il sollievo di un ritorno
e nell'aria che si fa strada
nella mia evanescenza
prendimi, perdimi:
le ore sono brevi
ma l'alba e la notte,
pagine contigue,
si toccano.
Tu che attieni al mio essere come magma
e straripi di nostalgie incompiute
e domande...domande
e lamenti il mio sguardo ossidato dalla distanza
taci.
Nel culmine della notte che rapprende i pensieri
fugace nella taiga consolata delle strade dormienti
ascolta
ti raggiunge nella vela della notte
il languore del mio verso
afferra i miei bisbigli nello sgocciolare della brezza
e nel tremore di un verso accusato di superbia.
Sono dove mi cerchi alla clemenza della luna
dentro queste parole.

Scroscia il mondo dentro di me.
Anche un baco che lucida il suo filo di seta,
un marinaio girovago su mari infidi o sonnolenti.
Attraverso la sfera di fuoco
di ogni respiro animale
che ansima e, mio coevo di sangue, mio amore,
mi emoziono
occupando la stessa zattera
intrappolata in una scacchiera di scogli
ove da criniere e fessure i gabbiani ci scrutano,
all'oscuro che la propria innocenza
vale la tregua.
Io e te tracciamo la rotta solo per fare qualcosa
senza guardarci negli occhi:non reggeremmo alla finzione.
Sappiamo dai colori del cielo dell'uragano
che si approssima
ma non immaginavo una così grande malinconia.
Il mio cuore però ha dita multiple per reggerti
e un sonno solo accennato per raccogliere
ai tuoi piedi
l'ululato atterrito
unanime
quando si spaccherà il mare
e Nettuno –o Satana?- avrà la meglio.
A quel punto anche Acheronte avrà qualcosa da mostrare:
il luogo dove ci si perde, probabilmente.
Troppo blando chiamarlo sonno.
Lo chiamo nulla. Lo chiamo vuoto assoluto.
Lo chiamo quello che è: inconsistenza.
Lo chiamo morte…morte.
Lo chiamo….

da Io Confesso, Lepisma ed. 2006

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9 Agosto 2006
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